La ragazza senza nome
Fin dal loro primo film, “La promesse”, i fratelli belgi Jean Pierre e Jean Luc Dardenne hanno realizzato un cinema dall’estetica scarna, essenziale, assolutamente realista e, al tempo stesso, un cinema dell’etica forte, che fa porre domande morali allo spettatore, che lo invita a prendere posizione su problematiche che riguardano scelte di vita essenziali per ognuno di noi.
Fin dal loro primo film, “La promesse”, i fratelli belgi Jean Pierre e Jean Luc Dardenne hanno realizzato un cinema dall’estetica scarna, essenziale, assolutamente realista e, al tempo stesso, un cinema dell’etica forte, che fa porre domande morali allo spettatore, che lo invita a prendere posizione su problematiche che riguardano scelte di vita essenziali per ognuno di noi.
Un cinema, dunque, che risvegli le coscienze, che ponga nuovamente domande di carattere ontologico, che ci costringa a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. In questo senso si può affermare che i due fratelli perseguono un cinema “spirituale”, simile a quello praticato da grandi autori della modernità del cinema, come Bergman, Bresson o Tarkovski. O meglio, un cinema “trascendentale”. Nel 1972 Paul Schrader, infatti, giovane dottorando in Cinema e futuro sceneggiatore e regista di successo (è suo lo script del capolavoro di Martin Scorsese Taxi Driver), scrive un libro dal titolo “Il trascendente nel cinema.
Ozu, Bresson, Dreyer” e afferma che lo stile trascendentale è quello che fa sperimentare allo spettatore un’esperienza legata a temi etici, morali, spirituali. Tra le varie modalità che individua per la realizzazione di questo stile trascendentale, Schrader parla dell’importanza di un’estetica cinematografica al limite del documentario, assolutamente realistica, improntata sul quotidiano.
Il quotidiano deve essere la celebrazione del triviale caratterizzato dall’attenzione ai piccoli rumori, ai gesti quotidiani. E’ necessario che gli ambienti reali, che alcuni attori siano non professionisti e che i suono venga ripreso in diretta.
Il tutto serve per eliminare tutto ciò che distrae lo spettatore dalla vera fruizione filmica e porre l’attenzione sul dramma interiore del personaggio, che nei film è spesso nascosto dalla narrazione tradizionale.
Tutti questi elementi li ritroviamo nell’ultimo film dei Dardenne, “La ragazza senza nome”, storia improntata sul più secco realismo, sui tempi morti, sulla ripetitività di gesti e azioni, perché il centro di interesse dei due registi è rivolto al dramma interiore della protagonista che, poi, diventa anche un’interrogazione alle nostre coscienze.
Si racconta la storia di una giovane dottoressa che non apre la porta del suo ambulatorio ad una citofonata arrivata ben oltre un’ora dopo la chiusura. Il giorno dopo, però, la ragazza viene a scoprire che la persona che le aveva citofonata è morta, uccisa brutalmente.
E’ una giovane di colore di cui non si conoscono nome e cognome. La dottoressa si sente subito responsabile del fatto (“Se avessi aperto non sarebbe mai successo tutto questo”) ed inizia una sorta di indagine privata alla ricerca di qualcuno che conoscesse la ragazza uccisa per darle almeno un nome e una degna sepoltura.
La macchina da presa dei Dardenne è posizionata sempre all’altezza della protagonista, la segue in questo suo percorso di ricerca, pedinandone le azioni ma soprattutto l’anima.
In questa sua indagine, la ragazza si confronterà con tante altre persone, alcune ignare dei fatti, altre a conoscenza ma che non vogliono parlare per i più svariati motivi (indifferenza, paura o perché invischiati nella vicenda) e questo confronto serrato con altri personaggi è quello che permette ai due registi di interpellare noi spettatori: che cosa avremmo fatto in una situazione come questa?
Come ci saremmo comportati? La nostra coscienza è ancora presente o ormai si è assuefatta al nichilismo contemporaneo? Domande importanti che, spesso, travolti dalle problematiche della contemporaneità, tendiamo a dimenticare.
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