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Mettersi nei panni dell'altro

La sofferenza, se vissuta con umiltà e senza protagonismi, può accomunare e far rifiorire

Provare a “sentire dentro” le sofferenze dell’altro, in momento storico nel quale la maggior parte di noi pensa di essere quella più colpita dalla pandemia, è esercizio difficile e anacronistico, verso il quale siamo quanto mai riluttanti.
Dovremmo fermarci, fare silenzio, ascoltare. In un tempo in cui, al contrario, sembra che per uscire dall’incubo che ci investe dobbiamo metterci ad urlare, reclamare, protestare a tutti le nostre ragioni.
Siamo immersi in una violenza verbale imperante, un arzigogolare di argomentazioni e di tesi: basta passare velocemente da un canale all’altro dei nostri televisori (a qualsiasi ora del giorno e della notte), buttare un occhio su una delle tante chat che schiavizza sempre più spesso i nostri smartphone, o scorrere velocemente le nostre pagine social.
Bisogna andare in piazza tutti insieme per provare a far sentire le nostre ragioni, ottenere svariate centinaia di condivisioni perché quello che scriviamo abbia senso per qualcuno o addirittura dia senso a noi stessi, usare parole clamorose perché queste scalfiscano il muro dell’inascoltato che ci circonda, affermandosi su quelle dell’altro. Abilissimi nelle comunicazioni di massa, spesso incapaci di un’attenzione e di uno sguardo che sanno cercare chi si è perso nella pancia del gruppo. E’ un frastuono scoraggiante, nel quale la verità si confonde con mille parole vuote che trovano spazio tutte allo stesso modo e che la confondono.

La sofferenza può unire, accomunare, essere addirittura occasione di rinascita se vissuta con l’umiltà della terra arsa che si lascia ferire, scavare, bagnare… e solo allora rifiorisce.

Ma quella stessa terra arida può chiudersi, compatta e secca, a ogni tentativo di essere finalmente dissetata, nella presunzione di bastare a se stessa. Potrà sembrare un’immagine retorica ma penso che sia quello che sta accadendo. Ciascuno concentrato sul suo cieco punto di vista, senza volere o riuscire a guardare oltre il proprio piccolo orticello o campo, pronto a rivendicare sovranità assoluta tra i propri confini. Tutti pronti a schierarsi di fronte al nuovo dualismo di giornata (aprire o chiudere tutto? vaccino: salvezza o complotto?), tutti abilissimi critici di professione, con i cannocchiali puntati alle inadempienze di chi ci guida e le lenti di ingrandimento rivolte con morbosa curiosità sulle contraddizioni di chi ci sta accanto.

Peccato che tale sagacia e prontezza diventino miopia disarmante di fronte alle conseguenze delle nostre azioni personali: tutti quei piccoli o grandi gesti quotidiani che ci costano inevitabili disagi, limitazioni, sacrifici e la cui inosservanza allontana la via d’uscita per tutti. Le nostre pretese di libertà individuale confluiscono così in un relativismo che, nel nome di un presunto bene personale, diventa il vero carnefice del bene comune: troppo spesso totalmente incapaci di comprendere che è la somma di tutti i nostri quotidiani “strappi alle regole” che alimenta ciò che sta andando male! Se non vogliamo continuare a percorrere sentieri solitari che portano poco lontano, forse, dobbiamo ritrovare i “limiti” contrapposti ma non contraddittori dell’unica strada percorribile verso un futuro di civiltà: da un lato l’attenzione ad ogni singolo uomo con la sua unicità, l’ascolto e il rispetto dei bisogni, delle sofferenze, dei drammi di ciascuno, ci salvano dalla deriva di un egoismo asfissiante rendendoci capaci di empatia vera; dall’altro la consapevolezza che esistono una verità e un bene comune che ci superano, frutto degli sforzi dell’umanità “migliore”, delle acquisizioni della scienza, della memoria della storia, dei progressi della tecnologia, del chinarsi di Dio verso l’uomo (per chi crede)… che non possono essere messi continuamente in discussione, ignorati e calpestati da un oscurantismo quasi medioevale. Attenzione al singolo e rispetto del bene comune non sono principi antitetici o tensioni schizofreniche del nostro animo, ma i due lati di questa strada: margini che non si incontrano mai, opposti ma non distanti, fino alla fine; margini che, fermi l’uno di fronte all’altro, ci lasciano progredire tracciando lo spazio entro cui possiamo e dobbiamo muoverci.
Solo percorrendo questa strada potremmo diventare davvero capaci di vestire i panni dell’altro, senza che questo diventi ostentata quanto inutile filantropia, ma stile semplice e spontaneo di chi ha nel cuore un Bene più grande.

Fonte: Il Cittadino
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