Una doppia verità
Un uomo giace a terra pugnalato. Al suo fianco il figlio 17enne impietrito, mentre sua madre accorre verso di lui proteggendolo da quell’orrore, e intimandogli che lui non c’entra nulla con la morte di quell’uomo, che di lei è il marito. Eppure il giovane s’impunta: “Andava fatto da molto tempo”. Cambio scena: un aula di tribunale dove il medesimo ragazzo è seduto al tavolo degli imputati accusato di omicidio premeditato. Al suo fianco l’avvocato e amico di famiglia, incaricato di difenderlo da carcere sicuro. L’impresa si fa più ardua nel momento in cui l’accusato sceglie il silenzio con tutti, avvocato incluso. Riuscirà la giustizia a “cogliere” la verità?
Un reo confesso minorenne. Un omicidio a sangue freddo. Una famiglia disgregata dalla violenza di un marito e padre brutale, almeno dalle testimonianze di moglie e figlio. Tutto porterebbe alla legittima difesa, ma la narrazione di Una doppia verità (in originale The Whole Truth che è ben diverso dalla traduzione italiana) conduce gradualmente a un enigma quasi insolvibile per dimostrarci quanto Giustizia e Verità non siano “tenute a sovrapporsi”: parola di avvocato. Il secondo lungometraggio di Courtney Hunt, regista dell’indimenticabile esordio Frozen River, muove su queste intenzionali direttrici e lavora con intelligenza sull’assorbimento del genere (il legal thriller) senza ripetere ingranaggi già troppo visitati dalla storia del cinema. Il vero protagonista, a dispetto dei personaggi ridotti quasi a estensioni concettuali, è il complesso e non poco ingannevole meccanismo dialettico che regolamenta l’orientamento della giustizia, almeno nel sistema legale americano. In tal senso diventa esemplare l’inconsapevole scambio di ruoli fra avvocati, imputato e famigliari, talora vittime e talaltra carnefici. Sulle tracce di Rashomon e via citando, la parola passa dai giurati inermi agli spettatori (che devono farsi) responsabili, perché a loro sono forniti elementi su cui indagare. In gioco, purtroppo, c’è la relatività di una verità liquida, sempre più distante dalla giustizia, ancor peggio dalla coscienza. Lo spettatore resta comunque intrigato da una sceneggiatura ben scritta e da una regia sorvegliata, assumendo e perdendo vicendevolmente convinzioni fino alla definitiva resa dei conti.
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