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Magnifica presenza

Magnifica presenza

“Finzione, finzione, finzione”: con queste parole sibilline si chiude il nuovo film di Ferzan Ozpetek, “Magnifica presenza”. È il protagonista Elio Germano, aspirante attore siciliano trapiantato a Roma, a pronunciarle alla fine di una pellicola che si discosta totalmente da quelle a cui ci aveva abituato il regista d’origine turca. Se pensiamo ai film di Ozpetek, infatti, pensiamo soprattutto a commedie colorate e divertenti, seppur venate sempre da malinconie e drammi, e troppo facilmente ribattezzate la “versione italo-turca delle commedie di Pedro Almodovar”. “Magnifica presenza”, invece, è un film austero, starebbe bene in bianco e nero, anche se è girato a colori, non contiene i soliti personaggi dell’universo di Ozpetek, rimane ambiguo e aperto nell’interpretazione. Si racconta una storia misteriosa, a tratti paurosa, che ha a che vedere con i fantasmi di un passato che sembra non voler passare. Il protagonista, infatti, va a vivere in una casa abitata da presenze che appartengono a una compagnia teatrale dell’epoca fascista e che non sanno di essere morte. Credono di trovarsi ancora in pieno regime e loro, che sono spie per i partigiani, si nascondono per non farsi catturare. Una storia sui generis, dunque, totalmente fuori dalla tradizione delle nostre pellicole e naturalmente anche di quelle di Ozpetek. Perché una scelta di questo tipo? Una scelta sicuramente azzardata da parte di un regista affermato e amato dal pubblico e dai critici per lo stile delle sue precedenti pellicole. Perché, forse, il regista vuole fare un passo avanti nel suo linguaggio e nella sua riflessione cinematografica, alzando il livello delle sue interpretazioni. Perché raccontare la storia di un aspirante attore che entra in contatto con altri attori, anche se teatrali, dà la possibilità a Ozpetek di ragionare sui rapporti tra teatro, cinema e realtà. Fra verità e finzione. Ed ecco che le parole finali pronunciate da Elio Germano trovano un loro senso nello svolgersi di tutta la pellicola: che è una riflessione sull’arte della finzione che è il cinema, come il teatro, ma che è anche la vita. Si recita una parte, s’interpretano ruoli, si vivono sogni, o fantasmi, e la vita intera è un immenso palcoscenico da vivere in maniera stupita e trasognata come fa sempre il protagonista. La vita inoltre è memoria, memoria storia di un passato che vivifica il presente (il passato fascista come il passato del Risorgimento, laddove il protagonista è un collezionista di album di figurine di quell’epocale periodo storico) e che non può e non deve essere dimenticato. Il tema del passato è una costante per il cinema di quest’autore che, essendo un trapiantato, dalla Turchia in Italia, conosce bene l’importanza del ricordo e della storia del proprio Paese. Il film è quindi un’opera complessa, molto rigorosa dal punto di vista formale, spiazzante sicuramente per lo spettatore. Il tentativo di far progredire il proprio cammino cinematografico verso riflessioni più ampie e più profonde rispetto alle opere precedenti che, forse, erano troppo legate a una quotidianità minimalista. Il risultato è un film di difficile definizione, forse algido, a differenza delle commoventi pellicole precedenti, che però lascia lo spettatore con tante domande. E una delle funzioni del buon cinema è proprio quella di essere in grado di farci interrogare. Sui noi stessi, sulla vita, sull’esistenza.
 

Allegato: omelia_lavoro.pdf (70,88 kB)
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