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La ruota delle meraviglie

Un film di Woody Allen

La ruota delle meraviglie

Nella Coney Island degli anni cinquanta le esistenze di quattro personaggi s’intrecciano in un vortice emotivo a partire dal momento in cui la giovane Carolina si reca presso la nuova residenza del padre Humpty in cerca di un luogo dove potersi rifugiare per sfuggire ai gangster che la inseguono. Humpty non vede la figlia da diversi anni e si è risposato con Ginny, una cameriera insoddisfatta che intrattiene una relazione segreta con Mickey, un bagnino più giovane di lei desideroso di diventare scrittore. 

Se è vero che la cinquantennale attività di cineasta ha prodotto una filmografia sostanzialmente compatta, seppur suddivisibile in diversi periodi, la quarantottesima regia cinematografica di Woody Allen è un oggetto da osservare con attenzione. La ruota delle meraviglie da una parte contiene infatti alcuni significativi ritorni (tematici, ambientali e drammaturgici), dall’altra una neutralizzazione della sua tipica vis comica e una qualità espressiva che lo rendono differente dal resto dei titoli della sua filmografia. 

Il ritorno più significativo è di natura ambientale, dal momento che Coney Island è forse la vera protagonista del film. Già sfondo di Io & Annie (1977), Coney Island non solo rivive letteralmente sullo schermo grazie alle scenografie del fido Santo Loquasto (che firma la trentesima collaborazione con Allen) e dai costumi di Suzy Benzinger, ma è anche magnificamente connotata dal dinamismo luministico di Vittorio Storaro. Una fotografia ispirata dai dipinti di Reginald Marsh e dai lavori di Norman Rockwell e che in taluni casi è in grado di evocare un legame espressivo e semantico con la pittura – come ad esempio l’inquadratura-capolavoro iniziale (nella foto) in cui Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch appare più che una semplice suggestione. Tuttavia c’è da dire che proprio l’autorialità della fotografia si rivela controproducente, poiché definendola e talvolta anticipandola finisce per soverchiare la scrittura del film. Al punto che qualcuno potrebbe lecitamente chiedersi se sia più un film di Allen o di Storaro, se Allen abbia delegato troppo al suo collaboratore e soprattutto se quest’impronta estetizzante, nuova nel cinema dell’autore di Manhattan, non sia in qualche modo il sintomo di una deriva espressiva.

Anche dal punto di vista drammaturgico il ritorno di Allen a temi già ampiamenti perlustrati – l’amore e il (suo) tradimento -, assume esiti diversi e tra loro contrastanti. Da un lato gli permette infatti di creare l’ennesimo grande personaggio femminile, che la vibrante interpretazione di Kate Winslet rende ancor più consistente, dall’altro lo porta a una assenza di tridimensionalità nella descrizione degli altri protagonisti – in particolare i due personaggi maschili.

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