‘Detachment - il distacco’
Nel 1998 l'eclettico regista inglese Tony Kayne aveva raccontato, in "American History X", la storia di una "diseducazione": quella di alcuni giovani ragazzi americani che crescevano nel culto assurdo del nazismo. Oggi, a quasi trent'anni di distanza, torna su un argomento simile: la "mala educazione" degli adolescenti, questa volta alle prese con il vuoto, la solitudine, la violenza, il narcisismo, il sesso. Non più la folle ideologia nazista a guidarli, bensì l'insensata ideologia nichilista postmoderna. E la situazione sembra ben peggiore di quella raccontata nel 1998. "Detachment - Il distacco" racconta la storia di Henry Barthes, un uomo solitario e introverso, ferito da una vita difficile ma che ha trovato nella letteratura un senso all'esistenza. Per questo insegna alle scuole superiori. Quando un nuovo incarico lo conduce in un degradato istituto pubblico della periferia americana, il supplente deve fare i conti con una realtà opprimente: giovani senza ambizioni e speranze per il futuro, genitori disinteressati e assenti, professori disillusi e demotivati. La diversità di Henry è evidente sin dal primo impatto con questo universo allo sbando.
Il distacco e l'assenza di coinvolgimento emotivo gli consentono di conquistare il rispetto e la partecipazione di ragazzi difficili, che ben presto sconvolgeranno il mondo apparentemente controllato del docente.
È un'autentica missione quella che vede impegnati gli insegnanti, a tutte le latitudini. Ancora di più lo è se il contesto sociale è caratterizzato dal degrado e dalla mancanza di prospettive. Ma laddove la scuola è l'unico punto di riferimento nei microcosmi di adolescenti che affrontano il faticoso cammino della crescita, questa missione rischia d'infrangersi al cospetto dei fallimenti quotidiani. Allora il senso d'impotenza e frustrazione polverizza ogni traccia dei primi entusiasmi e idealismi, giungendo a infettare anche vite private in lenta e inesorabile dissoluzione. Così, il desiderio di fare la differenza diventa vana velleità e lascia il posto alla resa.
La pellicola è cupa e disperata come lo sono i suoi protagonisti, girata con uno stile a metà fra l'avanguardistico e il pop dei videoclip, molto lontano dall'estetica dei prodotti commerciali americani odierni.
Certo, il film vuole denunciare lo stato di degrado e desocializzazione di molte realtà periferiche americane e finisce, in realtà, per diventare un manifesto della sconfitta dell'uomo di fronte al nichilismo dei nostri tempi.
Perché neanche il finale aperto a una minima speranza ci lascia in realtà intravedere una possibilità per il futuro. Il problema di opere come queste è che, pur manifestando il disagio dei nostri tempi, denunciandolo (anche con la scelta di uno stile volutamente sciatto e disperato), non offrono alcun tipo di visione alternativa, finiscono per accettare passivamente lo status quo che vorrebbero invece modificare. E si arrendono, come i loro protagonisti, all'ineluttabilità del nichilismo che ci circonda. La forza del grande cinema, invece, è sempre stata quella di saper dare alternative, vie di fuga, prospettive, slanci, aperture verso nuovi orizzonti e possibilità, alla ricerca della verità ultima delle cose.
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