Genova e Liguria
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100 anni di San Martino - Mons. Doldi: «L’Ospedale: una comunità che si prende cura»

A Genova una tradizione che va da Santa Caterina ed Ettore Vernazza ai giorni nostri

100 anni di San Martino - Mons. Doldi: «L’Ospedale: una comunità che si prende cura»

Nell'ambito del convegno per i 100 anni dell'Ospedale San Martino, celebrati con il convegno ai Magazzini del Cotone lunedì 11 marzo, Mons. Marco Doldi, Vicario Generale della Diocesi di Genova, ha tenuto una relazione sul tema "L'Ospedale. Una comunità che si prende cura".

La proponiamo integralmente

L’Ospedale: una comunità che si prende cura 

Quando si avvicina il variegato e complesso mondo della cura si possono cogliere autentiche ricchezze: la dedizione e le competenze degli operatori sanitari e degli amministrativi, impegnati nello svolgere la loro professione al servizio del malato; ancora, i contributi offerti dalla ricerca scientifica e dallo sviluppo tecnologico per la migliore cura e assistenza socio-sanitaria delle persone; e, più da remoto, l’impegno profuso dai responsabili della vita politica e amministrativa nel promuovere e salvaguardare il diritto - sancito dalla Costituzione - alla tutela della salute dei cittadini. 

1. Uno sguardo sul mondo della salute

Accanto a questi aspetti incoraggianti occorre registrare che, talvolta, i bisogni di cura e di salute dei cittadini risentono di modelli non sempre allineati con il perseguimento del bene della persona e, in definitiva, del bene comune. Ad esempio, una eccessiva libertà di iniziativa imprenditoriale in campo sanitario rischia di emarginare i soggetti più deboli e in difficoltà economiche. D’altro canto, l’esasperazione dell’uguaglianza dei servizi socio-sanitari resi alla popolazione può ingenerare burocratizzazione nella risposta e passività e acquiescenza da parte del cittadino. Inoltre, l’adozione indiscriminata del modello della logica aziendalistica in ambito sanitario, seppure motivata dall’esigenza di organizzare i servizi in maniera più efficiente, si presta al rischio di privilegiare il risultato economico rispetto alla cura della persona.

Queste dinamiche del mondo della salute vanno comprese anche alla luce di alcune tendenze della cultura contemporanea, che incidono sul modo stesso di concepire la salute, la malattia ed il paziente.

1. 1. Medicina e vita

L’impiego di strumenti sempre più sofisticati consente alla medicina di migliorare la qualità dell’esistenza, di prolungare la vita, di combattere più efficacemente il dolore e di intervenire sull’organismo umano sino al suo assetto genetico. Tale atteggiamento può portare ad ignorare i limiti della condizione umana, ad esempio, giungendo all’accanimento nelle terapie e contribuendo a coltivare l’immagine di un uomo padrone assoluto dell’esistenza, arbitro insindacabile di sé, delle sue scelte, delle sue decisioni. Eppure, il sogno di un progresso assoluto, tipico della cultura contemporanea si scontra con l’insorgere di nuove malattie e di minacce, quali l’inquinamento atmosferico, che riportano la persona umana di fronte alla sua finitudine.

Ancora: se fino a ieri l’obiettivo prioritario della medicina era quello di far vivere, oggi, ad essa è stato affidato anche il compito di far vivere bene. Si può dunque affermare che, accanto alla medicina dei bisogni, esista anche una medicina dei desideri. Nella mentalità di molti, infatti, non è più sufficiente non ammalarsi e guarire sempre, ma è necessario tendere verso una pienezza in cui siano soddisfatti, non solo i bisogni primari, ma anche quelli creati, giungendo impercettibilmente nel dominio del desiderio.

1. 2. Svuotamento dei significati dell’esperienza umana

L’uomo contemporaneo non ha un buon rapporto con le dimensioni faticose dell’esistenza. La sofferenza è considerata scomoda e inutile compagna dell’uomo; la malattia è vissuta come evento da cui liberarsi; il naturale processo di invecchiamento è rifiutato dal momento che la vecchiaia viene considerata come un tempo dopo la vita vera e non un tempo della vita; la morte è vista come evento indicibile e inaudito; la disabilità è considerata più come un bisogno assistenziale che non come una domanda di riconoscimento esistenziale. Non si tratta solo di un disagio fisico, ma, più radicalmente della incapacità a trovare un significato umano a queste esperienze: i grandi temi della salute e della malattia, della vita e della morte non sono più indagati alla ricerca di un senso, ma sono spostati e considerati solo sul piano della tecnica: l’intera vita sin dal suo sorgere è tecnicizzata.

C’è da aggiungere che, talvolta, l’esperienza della fragilità è resa ancora più evidente da carenze strutturali; come a dire: tutti siamo fragili, ma non lo siamo allo stesso modo. Anche nella sanità, vi sono gli ultimi della fila, per la cui tutela non basta la generica affermazione di “diritti”. Nonostante, le migliori carte del malato, si potrebbe paradossalmente affermare che “i diritti dei deboli” si fanno, giorno dopo giorno, “diritti deboli”. Le lodevoli iniziative promosse per l’accompagnamento dei disabili, delle persone affette da forme gravissime di malattia psichica, dei lungodegenti, dei malati cronici e degli inguaribili trovano, talvolta, rallentamenti e ostacoli causati della scarsa disponibilità delle risorse necessarie da investire nella presa in cura di queste persone e, forse, anche da una visione riduttiva della persona umana. 

1. 3. Perdita della visione globale

Se il progresso in ambito sanitario è testimoniato da una buona crescita a livello tecnico e specialistico, esso ha avuto come effetto una visione parziale e frammentata della persona. Il paziente può essere ridotto a un caso clinico, ad una patologia, ad un organo malato ad una cartella clinica. Questo è disumanizzante e fa perdere di vista la dignità della persona ed ha come effetto una scarsa attenzione al tema della prevenzione.

La filiera delle risposte di salute prevede un tempo che precede la cura, sia acuta che cronica, e che si conclude normalmente con la fase riabilitativa: è il tempo della promozione della salute e della prevenzione, che comprende sia specifiche misure volte a contrastare i fattori di malattia nei luoghi di vita e nei luoghi di lavoro, sia misure preventive volte a migliorare gli ambiti del lavoro, delle abitazioni, degli stili di vita ed anche del miglioramento della alimentazione. 

2. Nella prospettiva della comunità che cura

Le numerose sfide del mondo della salute sollecitano una visione nuova ed integrata delle relazioni di cura, che si realizza in tutti i livelli della società e dei luoghi di erogazione delle prestazioni socio-sanitarie. Alla società che si impegna per tutelare il diritto dei cittadini alle cure e alla salute, occorre proporre l’ideale di una comunità che si prende cura, custodendo e promuovendo la persona nella sua globalità, coinvolgendo, insieme al paziente, la famiglia, gli operatori sanitari e, più in generale, tutti i soggetti attivi nella società per il bene comune: questo perché la salute è bene di tutti.

Una comunità presuppone persone capaci di avere su sé stessi e su gli altri uno sguardo che vada oltre l’aspetto tecnico o burocratico, uno sguardo capace di cogliere, quasi in una sintesi, motivazioni della cura, valori di riferimento, crescita nella professione. È lo sguardo a cui invitano le “medical humanities”, quei saperi antropologici ed umanistici che completano le scienze mediche.

2. 1. Antropologia e medicina

Agli operatori sanitari è richiesto oggi di possedere, insieme alla dovuta competenza tecnico-professionale, un codice di valori e di significati con cui dare senso alla malattia ed al proprio lavoro e fare di ogni caso clinico un incontro umano. Infatti, «curare vuol dire avvicinare la persona»[1].

Il gesto terapeutico è un atto personale, compiuto da persona curante a persona curata, dall’operatore sanitario nei confronti del paziente; questi è qualcosa di più di un caso clinico e l’operatore sanitario è più che un semplice tecnico. Analogamente, la malattia non è la rottura di un ingranaggio e la cura il semplice ripristino di parametri chimici. Il sanitario ha davanti a sé una persona malata, dove il sostantivo precede sempre l’aggettivo. Il bene del paziente emerge, certamente, grazie alle conoscenze scientifiche e tecniche, che permettono la diagnosi e la cura, ma anche nell’ascolto costante di quel sapere che dice chi è il paziente e chi è il curante. Questo sapere chiamiamo “antropologia” - dall’etimo greco “àntropos” (uomo) e “logos” (ragionamento) -: discorso sull’uomo. I traguardi scientifici sono importanti, ma hanno bisogno di essere completati dai saperi umanistici, che attingono alle ricche testimonianze del pensiero occidentale e lo completano con le nuove acquisizioni, specialmente con quelle relative alla sfera della psiche umana.

La riflessione parte con la scelta di mettere la “persona al centro” e prosegue sino alla constatazione di una circolarità nella comunità, che evidenzia il ruolo fondamentale delle relazioni tra persone. È un nuovo paradigma, utilizzato sempre più spesso nella riforma del sistema sanitario: le persone umane realizzano più facilmente il bene comune nella reciproca interazione ed integrazione di sociale e di sanitario, di territorio e di ospedale. Così, la dimensione di insieme – degli operatori nelle loro diverse specializzazioni e competenze professionali, degli attori istituzionali e sociali nelle proprie responsabilità, dei cittadini singoli, familiari ed organizzati nei corpi intermedi - diventa la dimensione centrale che scende in campo per giocare insieme la partita della cura.

2. 2. Una comunità ospitale, che si prende cura

In questa prospettiva si può individuare nell’ospitalità della comunità la dimensione antropologica ed umana che tiene insieme e collega le diverse forme della prevenzione, della cura e della riabilitazione. Promuovendo la prossimità dell’atto curativo, l’ospitalità che si può realizzare in qualunque luogo di assistenza - dalle strutture di accoglienza comune, di residenza per non autosufficienti e disabili fino ad arrivare all’hospice - evoca significati antichi per cui al luogo della cura - per eccellenza - è stato dato il nome di “ospedale”. È noto, infatti, come i moderni ospedali nascano dall’hospitalitas, con cui le comunità religiose dei primi secoli davano assistenza, oltre che ai malati e ai feriti, anche alle vedove, agli anziani, ai minori, ai derelitti.

Una recente, ma in realtà molto antica prospettiva, invita a guardare ancora all’ospedale in questa prospettiva.[2] L’ospedale:

-  è volto, voce, gesto e parola capace di generare cura e insieme di prendersi cura, soprattutto quando la malattia si annuncia come degenerativa, cronica, irreversibile, terminale;

- assume quale criterio prioritario delle proprie scelte, la centralità della persona, la promozione della vita nella sua dimensione fisica e spirituale nei diversi momenti e dimensioni, talvolta tutelando la vita di ciascuno, riconoscendo in lui un “prossimo” e mai “estraneo”, anche quando proviene da contesti sociali e culturali diversi;

si fa carico di accompagnare anche le malattie inguaribili nelle scansioni di un tempo che, per quanto faticoso e doloroso, può restituire significato all’esistenza intera;

- sa accogliere il malato nella sua unicità e irripetibilità;

- abilita l’accoglienza, compiuta in tutta l’esistenza, promuovendo condizioni di vivibilità e appartenenza a chiunque chieda assistenza cura e riabilitazione, riconoscendo nella fragilità un evento della vita carico di significati.

Compresa nei suoi significati più profondi, la categoria dell’ospitalità offre a quanti sono chiamati ad elaborare le politiche sanitarie, criteri validi per perseguire l’efficienza dei servizi senza nuocere ai diritti della persona, evitando le disuguaglianze sociali nell’acceso delle risorse sanitarie. 

2. 3. La sfida della vulnerabilità

L’ospitalità non è solo accoglienza ma anche risposta ai bisogni delle persone ospitate; nel mondo della salute tale risposta è stata ed è offerta da una molteplicità di soggetti impegnati nella ricerca scientifica, nella pratica clinico-assistenziale e nell’amministrazione dell’ente di cura. Mentre si apprezzano gli sforzi di tanti nel mondo della salute, si deve cogliere urgente una sfida: quella di impegnarsi a dare un significato all’esperienza della malattia, come espressione della debolezza creaturale della persona umana. È stato notato che la nozione di “vulnerabilità” abbia una valenza insieme descrittiva e normativa: infatti, descrivere una persona come vulnerabile significa evocare come dovere morale una risposta di protezione e di responsabilità nei suoi confronti. Da qui il profondo legame tra l’idea di vulnerabilità e l’etica della cura[3]. Si potrebbe giungere ad affermare che la vulnerabilità, presente sotto tante forme diverse nel mondo umano, vi sia presente per sprigionare nell’uomo l’amore, quel dono disinteressato del proprio io in favore degli altri uomini, degli uomini nella malattia.

Il tema cruciale della cura, ci introduce a quell’etica dell’accompagnamento che insiste sull’esigenza di dare spazio, in ambito sanitario, al benessere del malato, attraverso l’attenzione agli aspetti relativi alla sfera emozionale, psicologica, culturale, sociale del singolo paziente. In un’etica centrata sulla persona, l’istanza fondamentale dell’accompagnamento esprime un concetto delle cure dove chi assiste impara quasi a camminare accanto al malato, senza l’intenzione di imporre l’itinerario, ma lasciandolo libero di scegliere la “sua” via, con la preoccupazione prioritaria di far sì che questo processo di consapevolezza non avvenga per il paziente nell’isolamento delle scelte. La condivisione del percorso clinico ed esistenziale della malattia chiama in causa sia i familiari e gli amici, sia i medici e gli operatori sanitari: gli spazi, i tempi, le relazioni interpersonali, l’intero contesto in cui il paziente vive la sua malattia richiedono una rete di sostegno materiale, sociale e psicologica. È quindi necessario promuovere un clima in cui il contributo di tutti, all’interno della comunità curante, venga vissuto come possibilità di reciproco arricchimento, di collaborazione complementare, di sincera ricerca di quel bene prezioso che è la salute.

Nella prospettiva dell’ospitalità, acquistano significato le iniziative finalizzate a rendere più umano il servizio al malato che si esprime nella forma di dedizione generosa, approccio caloroso, sensibilità attenta, presenza umile e gratuita. L’umanizzazione del mondo sanitario rimane un compito prioritario, non solo per il bene del malato, ma anche per l’operatore che, attraverso la sua dedizione, cresce come buon professionista. 

2. 4. Nascita dello spazio etico

La cura e il “prendersi cura” può anche svolgersi in modo nuovo e puntuale: l’esperienza della vulnerabilità suggerisce oggi la creazione di luoghi in cui l’assistenza sociale lega maggiormente i soggetti deputati a prendersi cura proprio attraverso l’ascolto dei pazienti e dei familiari. Ecco la creazione dello “Spazio etico”, inteso come luogo di ascolto, di incontro e di scambio di esperienze di vita personali e professionali in cui dare voce ai singoli cittadini e alle associazioni che li rappresentano. Fortemente voluto dal Comitato Nazionale per la Bioetica[4], già avviato in talune strutture, lo spazio etico può offrire la possibilità per i professionisti sanitari e per gli altri operatori, oltre che per le famiglie e i loro tutori ed amministratori, di sollevare domande e dubbi etici in un quadro di protezione e di ascolto e senza timori di conseguenze negative; rendere prontamente disponibile il supporto per l’identificazione e la presa in carico dei temi etici, compresa la formazione continua in materia di etica per i professionisti sanitari e per gli altri operatori; garantire la migliore comunicazione tra medico, operatori sanitari, pazienti, caregiver e la risoluzione efficace e puntuale dei conflitti etici che dovessero presentarsi. 

Conclusione

Il contesto della “comunità ospitale” si realizza e sempre di più si deve sviluppare in tutte le modalità di presa in cura: dal domicilio, alle residenze per non autosufficienti, ai servizi socio-sanitari del territorio fino, naturalmente, all’ospedale. È proprio qui che da sempre si esprime il senso pieno del prendersi cura: dei poveri e dei pellegrini sull’esempio di S. Martino di Tours, vescovo del IV secolo, la cui figura ha ispirato il nome di questo Ente; dei malati e degli inguaribili come avvenne nel Quattrocento a Genova con la creazione dell’Ospedale del Pammatone; qui all’assistenza dei malati dedicò la sua vita S. Caterina da Genova (1447-1510), il cui discepolo Ettore Vernazza (1470? - 1524), fondò l’ospedale degli Incurabili. E, da un secolo, il prendersi cura continua al San Martino per i pazienti acuti e di alta complessità, sino alle frontiere dell’innovazione nei farmaci, delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale, che sono strumenti per l’alta professionalità. Resterà sempre dirimente in tutto questo la centralità dell’umano: mantenere l’accoglienza della persona al centro del senso di “ospedale”, persona in tutte le sue espressioni: paziente, familiare e caregiver, operatore e decisore. Così facendo, l’ospedale del futuro non sarà soltanto tecnologico, digitale e smart, ma, soprattutto, umano.

 

Prof. Marco Doldi

Docente di Teologia Morale e Bioetica

[1] Francesco, Discorso 22 giugno 2019. 

[2] 2 Si può utilmente vedere: COMMISSIONE EPISCOPALE PER IL SERVIZIO DELLA CARITÀ E LA SALUTE, «Predicate il

vangelo e curate i malati». La comunità cristiana e la pastorale della salute. Nota pastorale, Rorna 2006

[3] 3 Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Vulnerabilità e cura nel welfare di comunità. Il ruolo dello spazio

etico per un dibattito pubblico, Roma 2021. 

[4] 4 Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Vulnerabilità e cura nel welfare di comunità ... 

Fonte: Il Cittadino
100 anni di San Martino - Mons. Doldi: «L’Ospedale: una comunità che si prende cura»
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