Notte degli Oscar - Vince il ritorno al passato
Questa volta non ci sono state sorprese: film favorito uguale film vincitore. Lo strabiliante cammino di “The Artist” – che dal Festival di Cannes in poi ha praticamente vinto tutto quello che c’era da vincere (Globes, Bafta, Cesar, etc...) – raggiunge la sua apoteosi con i cinque pesantissimi Oscar portati a casa nella notte: film, regia, attore protagonista, colonna sonora e costumi.
Questa volta non ci sono state sorprese: film favorito uguale film vincitore. Lo strabiliante cammino di “The Artist” – che dal Festival di Cannes in poi ha praticamente vinto tutto quello che c’era da vincere (Globes, Bafta, Cesar, etc...) – raggiunge la sua apoteosi con i cinque pesantissimi Oscar portati a casa nella notte: film, regia, attore protagonista, colonna sonora e costumi.
Un trionfo annunciato, come detto. Ma è anche meritato? Qui entriamo nel campo delle opinioni personali, ma alcune considerazioni possono aiutare a valutare meglio il valore di questo successo.
Evidente intanto l’impatto, anche mediatico, dell’operazione (onore a Langmann e ai fratelli Weinstein per averci scommesso). C’era qualcosa di estremamente audace, forse addirittura spocchioso, nell’aver immaginato e proposto, in piena era digitale, stereoscopia, estesica, un’opera realizzata alla maniera di quasi cent’anni fa: una pellicola girata in 22 fotogrammi al secondo, accelerata in post-produzione, per restituire al pubblico di oggi il dinamismo dei vecchi film degli anni ‘20; la riscoperta delle didascalie e la scoperta di quante possibilità espressive fossero insite nel loro abbinamento alle immagini; il recupero del gesto, del volto, della mimica, alla loro pienezza semantica, alla qualità di segni autosufficienti.
Nel mettere in scena il dramma di un attore di grande successo travolto dall’avvento del sonoro, “The Artist” non dice nulla che non sia stato raccontato già – “Cantando sotto la pioggia” di Stanley Donen e “Viale del tramonto” di Billy Wilder costituiscono due autorevoli precedenti – ma il punto è proprio questo, la capacità di ribadire in forme tecnologicamente antiquate (ma di una contraffazione tutta nuova, diversa da quella digitale) la natura artificiosa e ripetitiva del cinema, il meccanismo autogenerativo, la vocazione a fare e disfare se stesso continuamente. Hazanavicious (regia) & co. hanno realizzato un perfetto calco del passato che ha la malizia – nell’impasto spudorato di falsificazione e riciclaggio – del gusto post-moderno.
Probabilmente, sul filone della nostalgia e dell’omaggio al passato, l’“Hugo Cabret” di Scorsese era un’operazione teoricamente più rigorosa ed esteticamente più ricca, ma non aveva la leggerezza e la sfacciata voglia di giocare col pubblico – lo spettatore, nel rivivere l’esperienza del suo omologo di cento anni fa, incontra un fantasma del Tempo che ne incarna il desiderio recondito di liberazione dalla morte, nell’ebbrezza di un’eternità simulata – che “The Artist” ha messo in campo.
E forse, in un anno d’oro come questo, c’erano film più belli di “The Artist”, anche tra quelli candidati – ognuno può scegliere il suo. Nessuno però come il vincitore ha saputo restituire in forme insieme raffinate e popolari, la specificità di un’arte che non ha mai riguardato solo quello che vediamo (come vorrebbero far credere certe avanguardie e alcuni autori), ma come viviamo mentre vediamo (e siamo visti). Il fatto che si ritorni a vedere al passato, a come abbiamo visto/vissuto già una volta, un mondo fa, la dice lunga sul passaggio d’epoca. Tra la paura e la voglia di conseguire il futuro, fa capolino il rimpianto, l’infantile abbandono in un tempo non (più) nostro. Dietro cui si scorge non tanto la fiducia in una stagione migliore di questa, ma quella pulsione – questa sì contemporanea – di rifarla in laboratorio, sotto controllo, con lieto fine incorporato. Ed era questo auspicio che andava evidentemente premiato.
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