La versione di Barney
Mentre al botteghino la commedia di Checco Zalone, "Che bella giornata", eguaglia e supera il record di incassi de "La vita è bella", diventando così il film italiano più visto di tutti i tempi (dato che fa riflettere su come siano cambiati i gusti del pubblico e di come la cultura cinematografica si sia decisamente modificata), un altro film fa segnare buoni incassi al box office. Si tratta de "La versione di Barney", pellicola tratta dal celebre romanzo di Mordecai Richler, che qualche anno fa aveva conosciuto un notevole successo di lettori. Si sa che trasporre un romanzo sul grande schermo è sempre difficile, soprattutto per i libri di culto, e spesso lascia insoddisfatti i lettori. Ma a volte qualche opera filmica riesce nell'impresa, pur diventando qualcosa di differente dal romanzo da cui è stata tratta.
"La versione di Barney" appartiene a questa categoria: fedele al libro, ne ricalca l'ironia e il cinismo, mitigandole un po' per il grande schermo, senza farsi versione edulcorata o troppo hollywoodiana. Grazie anche alla straordinaria interpretazione di Paul Giamatti e di Dustin Hoffman (nelle vesti del padre del protagonista, ruolo che nel libro aveva poco spazio, mentre nel film ne trova molto e si ritaglia alcune sequenze indimenticabili) il film emoziona in maniera intelligente e mai banale lo spettatore. Una pellicola che rende con garbo la storia del suo personaggio: nonostante "graffi" meno del protagonista del libro, infatti, per la media dei protagonisti che vediamo al cinema, il Barney interpretato da Giamatti è dotato di spessore e umanità molto superiori rispetto a ciò cui siamo abituati.
La storia è nota. Barney Panofsky è un produttore televisivo ebreo che vive a Montreal, dove colleziona mogli e bottiglie di whisky. Figlio affettuoso di un poliziotto in pensione col vizio degli aneddoti, Barney è incalzato dalle ambizioni e dalle calunnie del detective O'H earne, convinto da anni del suo coinvolgimento nella scomparsa di Boogie, amico licenzioso e scrittore dotato. Dopo l'uscita del libro di O'Hearne, che lo accusa di omicidio e di ogni genere di bassezza, Barney si decide a dare la sua versione dei fatti, ripercorrendo la sua (mal)educazione sentimentale e la sua vita fuori misura, consumata nell'Italia degli anni Sessanta e perseverata in Canada. Tra una partita di hockey e una boccata di Montecristo, l'irrefrenabile Barney rievoca il suo primo matrimonio con una pittrice esistenzialista e suicida, riesamina le seconde nozze con una miliardaria ebrea e riconsidera gli errori fatti con la sua terza e amatissima consorte, speaker garbata e madre dei sui due figli. Fino ad un finale che sfiora il melodramma.
Il regista si limita a lasciare spazio al suo interprete e il film è decisamente un film d'attore, che deve molto allo spessore recitativo del suo protagonista. Certo il materiale narrativo è di primo livello e la storia di questo egoista, confuso, fragile, cinico, ma in fondo buono, produttore televisivo di serie B, che cerca il suo posto nel mondo, fra eccessi, tragedie, amore, malattie, colpisce al cuore lo spettatore, regalandoci un senso forte di verità e di umanità. È raro trovare al cinema personaggi così tridimensionali, che sappiano parlare allo spettatore la lingua della realtà. Personaggi che sanno metterci di fronte alle grandi sfide che la vita ci offre e che ci fanno porre le domande essenziali sulla nostra esistenza, toccandone i temi fondamentali (amore, famiglia, dignità personale, proprio senso in rapporto agli altri).
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