La pazza gioia
Paolo Virzì è tra gli autori italiani che meglio sembrano aver imparato, introiettato e riformulato la grande lezione della commedia all’italiana. Fin da “La bella vita” e “Ferie d’agosto”, infatti, le sue due prime pellicole, ha dimostrato di avere uno sguardo attento sulla realtà, sui personaggi e gli eventi che la popolano, e di saperli raccontare con ironia e divertimento. L’unica cosa che manca, rispetto alla commedia all’italiana, è il cinismo e la cattiveria che autori come Monicelli e Risi mettevano nei loro film, uno sguardo critico che voleva essere una condanna morale nei confronti di un’Italia ed un italiano che, negli anni Sessanta, stavano cambiando in fretta, ma non in meglio. Virzì ha invece uno sguardo dolce, assolutorio, nei confronti dei suoi personaggi. Questo suo animo umanista lo ritroviamo espresso al meglio nel suo ultimo film, “La pazza gioia”, presentato con successo fuori concorso a Cannes. Una pellicola che racconta l’improbabile amicizia fra due donne agli antipodi (una ricca e borghese, l’altra povera e proletaria) che vivono però uno stesso, terribile, problema: quello del disagio psichico.
Beatrice Morandini Valdirana ha tutti i tratti della mitomane dalla loquela inarrestabile. Donatella Morelli è una giovane madre tatuata e psicologicamente fragile a cui è stato tolto il figlio per darlo in adozione. Sono entrambe pazienti della Villa Biondi, un istituto terapeutico per donne che sono state oggetto di sentenza da parte di un tribunale e che debbono sottostare a una terapia di recupero. È qui che si incontrano e fanno amicizia nonostante l’estrema diversità dei loro caratteri.
Virzì realizza una commedia on the road partendo da un argomento ben poco da commedia: la malattia mentale di cui, soprattutto all’inizio, non ci risparmia la dolorosa quotidianità (molte delle attrici sono, infatti, vere pazienti psichiatriche). E riesce nell’impresa di affrontare una questione così delicata e importante, ma spesso nascosta dalla nostra società dove tutto deve essere “normale” e, anzi, perfetto. Il film è l’elogio dell’imperfezione, della fragilità, delle paure. E’ un inno all’amicizia e alla solidarietà, ed anche un inno alla donna e alla sua forza, nonostante tutto.
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