Hannah Arendt
Regia: Margarethe Von Trotta Durata: 113 minuti
Regia: Margarethe Von Trotta Durata: 113 minuti
All'inizio degli anni '60 la filosofa Hannah Arendt vive felicemente a New York, ha già lavorato e lavora in prestigiose Università ed ha accanto un buon marito, il poeta Heinrich Blucher. Nel 1961 gli israeliani catturano il criminale nazista Adolf Eichmann e lo conducono a Gerusalemme per processarlo. La Arendt si reca nella città israeliana per seguire il processo e da quell'esperienza nasce il libro "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme".
Un libro che susciterà molto scandalo proprio all'interno delle comunità ebraiche. Rimangono al suo fianco il marito, l'amica Lotte Kooler e molti dei suoi studenti. Margarethe Von Trotta (nata a Berlino nel 1942) è stata tra i registi della rinascita cinematografica in Germania negli anni Settanta e Ottanta, insieme a Herzog, Fassbinder, il marito Schlodorff.
Il suo è sempre stato un cinema impegnato e intenso, da "Anni di piombo" a "Rosa Luxemburg" a "Vision" sulla figura di Hildegarda di Bingen, fino al 2003 con "Rosenstrasse", opera sulla condizione delle donne berlinesi sposate con uomini ebrei nel periodo del nazismo. Con "Hanna Arendt" affronta la figura della studiosa allieva di Heidegger e, in quanto ebrea, rifugiata prima in Francia e poi, nel 1941, emigrata negli Stati Uniti insieme alla madre e al marito.
Il film si concentra soprattutto sul periodo in cui la Arendt ha già una cinquantina d'anni mentre si dedica a scrivere alcuni articoli per il New Yorker e dunque la stesura del libro. Infatti, "La banalità del male" è un testo che intende mettere in evidenza il Male incarnato da Eichmann come "Banale", poiché commesso da un individuo che è in sé estremamente mediocre, un burocrate che obbediva agli ordini. Nel film la Von Trotta mette in evidenza le tesi che diede origine a molte polemiche tra la Arendt e alcuni esponenti della comunità ebraica.
Certo il film può essere a tratti didascalico e verboso, ma va dato merito a Margarethe Von Trotta di aver firmato un'opera profonda, capace di suscitare interrogativi di ordine etico e filosofico.
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