Il labirinto del silenzio
In Germania ancora nel 1958 la gente non sapeva o non voleva sapere cosa fosse stato veramente Auschwitz. Troppo doloroso e complicato fare i conti col proprio passato, con le mostruosità e i delitti avvenuti. Proprio nel 1958, però, un giovane procuratore idealista decise di squarciare il velo di silenzio e di mostrare a tutti i suoi connazionali (e anche a se stesso) la verità terribile di quello che era stato. “Il labirinto del silenzio”, diretto dall’italo-tedesco Giulio Ricciarelli, racconta un bel pezzo di storia, poco conosciuta, e mostra le difficoltà di arrivare a quel processo che, nel ’63, portò in aula 211 sopravvissuti ad Auschwitz e 19 SS e, soprattutto, portò una nazione alla coscienza di un terribile recente passato. Il film, candidato all’Oscar come miglior pellicola straniera, si muove a metà tra genere didattico e documentario d’inchiesta per raccontare questa smemoratezza, mettendo in campo tutti i temi legati alla Shoah: le responsabilità di chi partecipò a quell’orrore, diviso tra coscienza e dovere di soldato, le suggestioni del revisionismo storico, “la banalità del male” di Hanna Arendt (a cui recentemente Margherete Von Trotta ha dedicato un bellissimo film che, per intensità, forza e ricostruzione documentaria ricorda questa pellicola di Ricciarelli) e soprattutto la volontà di un Paese che, in fondo in fondo, non vuole davvero sapere la verità.
Protagonista è un giovane pubblico ministero che, con l’aiuto di un giornalista, s’imbatte in alcuni documenti che permettono di avviare il processo contro i membri delle SS che hanno commesso crimini nei campi di concentramento. Sarà, però, molto difficile imbastire il procedimento penale, tra omertà e ostilità che il giovane trova attorno a sé. E sarà un cammino difficile anche e soprattutto per le scoperte terribili che il ragazzo farà: aprire gli occhi sulle disumanità commesse dai suoi connazionali (e anche dai suoi familiari) lo farà arrivare a dubitare di ogni cosa. Anche se alla fine, la sua coscienza ne uscirà pulita. La storia, basata su fatti reali, racconta appunto gli sforzi di quest’uomo, puro e idealista, per rompere la coltre di silenzio e assicurare i responsabili alla giustizia. Sulla responsabilità di quell’eccidio, ha detto Ricciarelli: “non è importante quando si è nati, prima o dopo Auschwitz. Anche se non si è colpevoli resta comunque la responsabilità di quello che è successo allora”. Il film ha un grande pregio: invita noi spettatori a porci domande riguardanti la nostra coscienza e la nostra umanità. Guardando la pellicola, infatti, viene logico chiedersi: ma come ci saremmo comportati in quegli anni? E soprattutto siamo sempre in grado di affrontare la verità dei fatti e metterci in discussione sulla nostra condotta morale? Il bel film di Ricciarelli non è semplicemente una pellicola sulla Shoah, ma anche e soprattutto un film sulla Germania degli anni Cinquanta e anche un film su una memoria dimenticata. Un “memento” per le generazioni presenti e future in cui non si trovano momenti troppo retorici, grazie al punto di vista inedito con cui vengono raccontati fatti così noti (ma mai troppo conosciuti).
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