Al cinema - Lei mi parla ancora
Un film di Pupi Avati
Il regista Pupi Avati ci affascina sempre con le sue ambientazioni intimiste.
Nel Suo ultimo film “Lei mi parla ancora”, racconta (evocando il libro di memorie scritto dal farmacista Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio ed Elisabetta) la storia di una coppia che si è amata ed è stata insieme tutta la vita.
Lei viene a mancare improvvisamente per prima e nella mente del marito riaffiora la memoria del tempo trascorso insieme, per 65 lunghi anni.
In particolare dal giorno del matrimonio, quando lei aveva scritto e consegnato a lui una lettera che era un patto d’amore che li avrebbe resi immortali, come in un gioco di rimandi: lei per lui e lui per lei.
Nell’immedesimazione dell’epoca, per quella generazione i matrimoni erano legami intensi, fatti di quotidianità che rinnovava la promessa del primo giorno. Direi che, osservando l’immagine dello scorrere lento del Po (e l’esondazione nel Polesine a rimarcare le alterne vicende della vita), proposta con studiata intensità, con scorci che danno la visione di ampi spazi e di un contesto ambientale con una fisionomia ben nota, quelle unioni seguivano un ritmo che li rendeva parte della natura e dei suoi tempi, e forse celavano davvero un senso di appartenenza e di immortalità.
Il tutto con la consueta naturalezza di ambientazione, dove i dettagli e le pause fanno la differenza, in cui ciascuno occupa un posto che gli pare dipinto addosso, dove le scene domestiche valorizzano le tradizioni, i vissuti generazionali, che attingono spesso a ricordi personali e immedesimazioni nascoste del grande Maestro del cinema italiano.
Prestando orecchio a questa lunga storia d’amore suggellata dal matrimonio viene da chiedersi che cosa è cambiato nei legami sentimentali del nostro tempo. Per questo nei film di Pupi Avati il filone narrativo predilige con cura i ritmi di un tempo andato dove i ricordi sono sempre protagonisti. La trama propone l’intensità rievocativa nostalgica del protagonista, un grande Renato Pozzetto, con cui si rivolge al passato mentre vorrebbe fermare lo scorrere del tempo, per renderlo addomesticabile, come se l’amata Rina fosse ancora accanto a lui.
Per ricostruire una lunga storia d’amore vorrebbe trasferire gli avvenimenti che riaffiorano alla memoria e farli rivivere come contenuto di un libro che uno scrittore di mezza età è chiamato a comporre: la promessa di immortalità giustifica allora il titolo del film, perché il legame che li univa in vita va oltre la morte e resta nel cuore come una consolazione.
Rina parla ancora a Lui specie quando la sua assenza diventa lacerante, dolorosa, inaccettabile.
Torna alla mente questa sensazione inspiegabile di assenza e di presenza nei versi di Attilio Bertolucci, in una delle più belle poesie del 900 che sembra fatta apposta per descrivere un legame d’amore che dura oltre l’esistenza e la ricompone in una garbata dignità: “Assenza, più acuta presenza….. il petto ti porta come una pietra leggera”.
Una della chiavi interpretative che aiuta Nino a superare ciò che nella realtà separa la vita dalla morte la si scopre quando il farmacista rimasto solo ricorda le parole scritte da Cesare Pavese nel suoi dialoghi con Leucò “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale.
Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”, aforisma che spiega che il senso della trama consiste nella narrazione di una lunga esistenza a due: nella sua intimità in parte spiegabile e in parte inesprimibile.
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