Compito educativo, non solo della scuola
Famiglia, contesti sociali, mondo del lavoro sono chiamati ad un compito di continuità e di coerenza rispetto agli apprendimenti scolastici
Appartengo ad una generazione di uomini di scuola che ha coltivato tenacemente una speranza, pur nell’avvertita, possibile incombenza di una cocente delusione: che terminato il nostro compito tra le mura delle aule, potessimo consegnare ai nostri alunni, insieme al diploma che li accomiatava da un obbligo, anche il testimone di un impegno che li accompagnasse verso i restanti doveri della loro esistenza.
Primo fra tutti quello di mantenere acceso per il resto della loro vita il desiderio di apprendere, il gusto di imparare cose nuove, di coltivare l’interesse per il sapere e la cultura e la motivazione per la conoscenza, oltre le nozioni e gli insegnamenti ricevuti dai libri e dai maestri.
Possiamo dire di essere stati dei buoni educatori se siamo stati capaci di formare menti critiche e aperte, di sollecitare domande e curiosità e – soprattutto - di trasmettere un metodo più che i singoli contenuti: quello di ‘imparare ad imparare’, che consiste nell’usare il talento e l’ingegno per crescere migliorandosi, in un rapporto incessante di confronto rispettoso con gli altri, in armonia con il mondo.
L’abbiamo chiamata ‘life long education’ questa speranza collettiva – cioè educazione permanente- immaginando che la formazione diventasse un dovere per la vita, un modo condiviso per nobilitare le ragioni della mente e del cuore di ogni singola persona oltre che un impegno civile verso l’intera società.
Non abbandonare mai per tutto il resto della propria esistenza la fiducia nelle potenzialità dell’intelletto e del sentimento, vivere quella parte di cammino che si chiama futuro nella consapevolezza che ogni incognita, ogni mistero – piccolo o grande che sia – e tutto ciò che i qualche modo ci può portare ad essere migliori e felici, vanno affrontati guardando agli altri come a se stessi, con lo stesso amore, con la stessa umana dignità.
Perché se la luce della cultura e l’afflato della relazione umana che sono le ragioni per cui la scuola esiste, si spengono al passaggio generazionale dell’adultità, si corre il rischio di ricominciare ogni giorno da capo, da soli, senza un progetto condiviso, mentre ciò che tenacemente ci è stato inculcato come valore e compendio di civiltà si affievolisce e si spegne nell’incertezza dell’improvvisazione, nell’assunzione di parametri esistenziali incerti, effimeri e diversi.
Famiglia, contesti sociali, mondo del lavoro sono chiamati ad un compito di continuità e di coerenza rispetto agli apprendimenti scolastici, affinchè valgano per la vita e non restino un debole e lontano ricordo generazionale.
Per questo la scuola deve trasmettere soprattutto buoni valori e ciò è ancor più necessario in epoche di disorientamento etico e di inquinamento culturale, come sembra essere il nostro tempo.
Scienza, progresso, ricerca realizzano nuovi traguardi, possono migliorare il mondo.
Ma deve esserci un collante che rinsalda il bene comune.
Non si tratta di costituire circoli culturali, di organizzare convegni e tavole rotonde, di dare patentini ai corsi per la terza età: si tratta di mantener desto e praticato il senso del dovere e la consapevolezza della sacralità della vita, in tutte le sue espressioni esistenziali, ad ogni età.
Quel sogno della mia generazione è oggi urgenza, anzi emergenza educativa e io credo che quel collante abbia un nome: rispetto.
Rispetto per l’uomo, la sua libertà di pensiero, la sua identità, la sua fede, la sua dignità personale.
Rispetto verso l’ambiente, che stiamo distruggendo in una sorta di impazzimento collettivo, narcotizzati dall’ansia del possesso e dal desiderio del consumo di tutto ciò che ci circonda, violando colpevolmente le stesse regole della natura.
Rispetto al dovere dell’impegno civile e sociale: contro le discriminazioni, lo sfruttamento, l’emarginazione, la violenza perpetrata sotto qualunque forma, contro le nuove barbarie e le nuove povertà, contro l’ingiustizia.
Trovo agghiacciante sopra ogni cosa “l’homo homini lupus”, cioè il soverchiare gli altri per i nostri interessi, una concezione strumentale “dell’altro da sé” oggi largamente diffusa e metabolizzata negli stili di vita prevalenti, specie se questo avviene da parte di un adulto imbarbarito dall’assenza di educazione e se l’inganno, la colpa, la violenza uccidono l’innocenza di un bambino.
Quella scommessa della mia generazione non va abbandonata, può essere l’utopia che ci manca, quella che ci serve per rinsaldare un progetto comune: per questo adesso più che un’illusione è un obbligo, anzi un dovere. Una scommessa da vincere ad ogni costo, giorno per giorno, con la pacatezza della ragione e con la forza del cuore.
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