Scandali della Regione Lazio: non è un cartone animato!
Come cambiano i costumi e il senso comune: fino a qualche lustro fa, chi era accusato di malaffare o di comportamenti contro il bene comune aveva il pudore di togliersi dalla pubblica vista e di farsi da parte, in attesa dell’eventuale processo. Oggi, al contrario, la spettacolarizzazione della società di massa produce l’effetto opposto: l’esposizione mediatica è direttamente proporzionale alla gravità delle accuse.
Come cambiano i costumi e il senso comune: fino a qualche lustro fa, chi era accusato di malaffare o di comportamenti contro il bene comune aveva il pudore di togliersi dalla pubblica vista e di farsi da parte, in attesa dell’eventuale processo. Oggi, al contrario, la spettacolarizzazione della società di massa produce l’effetto opposto: l’esposizione mediatica è direttamente proporzionale alla gravità delle accuse.
Il caso di Franco Fiorito ne è un esempio evidente. L’uomo, accusato di aver utilizzato a beneficio personale ingenti somme a disposizione del suo gruppo politico, è stato arrestato nei giorni scorsi con l’accusa di peculato. Ma già prima dell’arresto, quando è esploso il cosiddetto “Laziogate”, più emergevano notizie e informazioni contro di lui, più lui si affannava a comparire in televisione, in radio e sui giornali non soltanto per proclamare la sua innocenza ma addirittura per rilanciare la “legittimità” del suo operato, con un’aria di sfida che avrebbe irritato anche il più accanito fra i suoi simpatizzanti.
Se non fosse per la gravità dei comportamenti di cui è accusato e per la strafottenza che ha sempre esibito davanti a telecamere e taccuini, l’ex capogruppo del Pdl alla regione Lazio sembrerebbe un incrocio fra un cartone animato e una macchietta da telefilm anni ‘80. Ma questo nulla toglie alle sue responsabilità, anzi le rende ancora più pesanti.
Con lui, altri personaggi finiti nel mirino degli inquirenti hanno fatto lo stesso. Sempre restando nell’agone politico, oltre ai sodali di “Er Batman” nella regione Lazio, potremmo citare il consigliere regionale lombardo Filippo Penati, il presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, l’ex premier Silvio Berlusconi e tantissimi altri, giusto per restare nell’attualità.
Nel recente passato si sono avuti molti esempi di soggetti accusati di delitti anche gravi - perfino di omicidi - che, con la complicità di avvocati molto spregiudicati e ben consapevoli del potere dell’audience, hanno scelto di perorare la propria causa nelle sedi mediatiche prima ancora che in quelle giudiziarie (spesso volutamente disertate).
È dunque cambiato il rapporto fra l’esistenza pubblica di una persona, la collettività sociale e i mezzi di comunicazione. Questi ultimi non si limitano più a raccogliere informazioni sui fatti per trasformarli in notizie, cercando di trasmettere la verità e di fornire ricostruzioni imparziali (per quanto possibile) ai propri destinatari. Il “basso profilo” non vende. Meglio - strumentalmente - dare spazio anche alle più improbabili autodifese pur di guadagnare in sensazionalismo e spettacolarità, a prescindere dalla credibilità dei diretti interessati che volentieri si espongono al pubblico giudizio in cerca di consenso.
Non è compito dei giornalisti né degli autori televisivi condannare o assolvere prima che la giustizia abbia fatto il suo corso, ma certi spazi offerti a chi si trova coinvolto in uno scandalo o in un fattaccio di cronaca sono fuori luogo. A meno che la sovraesposizione di certi personaggi non sia bilanciata da una contestuale presa di distanza esplicita e dal diritto-dovere di critica nei loro confronti.
Accanto ai diretti interessati che, di volta in volta, finiscono sotto i riflettori, nella nuova era del processo mediatico si è affermata un’altra categoria di professionisti: i consulenti d’immagine. Sono loro, molto spesso, non soltanto a determinare la comparsa degli inquisiti in pubblico o sui media, ma addirittura a stabilire le parole da dire, gli slogan da lanciare, i colori dei vestiti da indossare. Per averne la riprova, basterebbe una rapida ricognizione su quanto e su come i personaggi in questione abbiano occupato gli spazi offerti dai media (questi ultimi in alcuni casi - come è stato accertato - ben pagati in cambio).
Evidentemente gli avvocati apprezzano lo sforzo, convinti - o illusi - che la pressione mediatica possa condizionare non soltanto il giudizio dei cittadini ma anche quello dei magistrati chiamati a giudicare.
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