Fa udire i sordi e fa parlare i muti
XXIII Domenica del Tempo Ordinario (domenica 9 settembre)
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Dio, instancabilmente, all’uomo che sotto il peso delle avversità si sente smarrito, promette giustizia - castigo per i malvagi, ricompensa per i giusti - e salvezza dalle sofferenze.
Nell’Antico testamento, tramite i profeti, suscita e coltiva la speranza: al tempo opportuno il suo Messia recherà giustizia e liberazione ai poveri, ossia a coloro, i quali, coscienti della propria pochezza umana, si lasciano arricchire da Dio.
Cristo è il protagonista della realizzazione delle promesse divine: i contemporanei ne sono testimoni e trasmettono la loro esperienza misericordia di Gesù, garantita anche con i miracoli preannunciati.
La sequela cristiana è autentica soltanto se non si adegua agli opportunismi che discriminano il prossimo, secondo il vantaggio che ne può derivare, ma, ricalcando le orme di Gesù, tratta tutti con spirito fraterno, privilegiando, semmai, i più disagiati, i poveri che nella Chiesa devono godere – ricorda Bossuet – di “eminente dignità”.
Il racconto è esclusivo di Marco. Gesù, da Tiro con una giornata di cammino, raggiunge Sidone, donde, attraverso la regione del Libano, scende nella valle del Giordano, “verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decapoli”, il comprensorio, a levante del lago, di dieci città amministrate ellenisticamente. Ancora, quindi in territorio straniero, a confermare l’intenzione di far comprendere che la redenzione è per tutte le etnie e non riservata esclusivamente agli Israeliti. La sua missione ha orizzonte universale. Perciò parla ed opera come tra i suoi connazionali. La sua fama lo ha preceduto: alcuni parenti o amici di un handicappato prendono gl’iniziativa di condurglielo, “pregandolo di imporgli la mano”, il gesto, ormai noto, di paternità confortatrice, di protezione benedicente, con cui Gesù compie guarigioni miracolose.
Si tratta di un “sordomuto”: veramente la parola greca del testo originale, più che il mutismo sembra designare una grave difficoltà di articolare le parole, una specie di balbuzie, quindi l’uomo più che “sordomuto” è “sordo-balbuziente”.
Gesù se lo conduce “in disparte, lontano dalla folla”, la quale probabilmente ha fatto cerchio intorno a loro due. Un atteggiamento enigmatico, di cui l’evangelista non dà spiegazione. “Sembra chiaro – osserva M. J. Lagrange – che le due ragioni [ricorrenti nell’operato di Gesù], cioè evitare l’ostentazione e sventare la critica, abbiano qui un particolare valore, a causa del procedimento che Gesù si propone di usare. Esso racchiude un elemento sensibile che può sembrare un po’ troppo drammatico ai pagano e macchiata di magia agli Ebrei. I rabbini proibivano severamente, a tutti coloro che curavano delle piaghe, di bisbigliare parole che passavano facilmente per versetti biblici, soprattutto se prima veniva fatto uso della saliva sulla ferita, perché ciò era ritenuto come n’offesa fatta a Dio.
Ciò che Gesù fa dunque può essere mal interpretato” Seppure in disparte, la gente ha la possibilità di notare ciò che Gesù fa all’handicappato: “gli pone le dita nelle orecchie e con la saliva gli tocca la lingua”.
Gesti indubbiamente assai espressivi, tuttavia in se stessi inefficaci per la guarigione, che invece avviene, testificando che il potere di Gesù è divino: i gesti umani lo rendono tangibile. Dunque credibile. A conferma di ciò eleva “lo sguardo vero il cielo”, atteggiamento di colloquio, di intesa con il Padre.
Quindi “emette un sospiro” – una delle rare annotazione psicologiche degli scritti evangelici – quasi a trarre dalla sua interiorità l’alito vitale-creativo, che compia il miracolo. Infine l’imperativo “effatà”, parola aramaica, che Marco conserva genuinamente dal racconto di Pietro e che traduce per i destinatari del suo scritto: “apriti”. Una parola che, così originale, è entrata subito nella liturgia battesimale: unitamente alla ripetizione dei gesti taumaturgici di Gesù, il sacerdote – com’è noto – chiede che il neofita possa “ascoltare la parola di Dio e professare la fede”. All'ingiunzione di Gesù, immediatamente, “le orecchie dell’uomo si aprono e si soglie il nodo della lingua e parla correttamente”. Da notare che l’evangelista non dice che l’uomo “comincia” a parlare, come sarebbe giusto se si trattasse di “sordomuto”, bensì che parla “correttamente”, confermando che, in effetti, si tratta di un “sordo-balbuziente”, liberato dal “nodo alla lingua”. Gesù, come altre volte, “comanda” di non propalare il fatto, onde sottrarsi all’entusiasmo popolare, certamente inopportuno, considerate le disposizioni malevole dei maggiorenti. Ma tali “lo stupore” è tale, la raccomandazione cade nel vuoto, anzi – nota l’evangelista – più Gesù raccomanda il segreto e più i testimoni lo divulgano.
Perché si rendono conto che Gesù attua le caratteristiche attribuite dai profeti al Messia: “fa bene ogni cosa; fa udire i sordi e parlare i muti!”
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