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24 settembre - Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato

Mons. Giacomo Martino: «Garantire vie sicure per chi lascia il proprio paese»

24 settembre - Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato

Domenica 24 settembre si celebra la 109ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, quest’anno sul tema scelto da Papa Francesco “Liberi di scegliere se migrare o restare”.
Per parlare di questa giornata abbiamo incontrato Mons. Giacomo Martino, Coordinatore dell’Ufficio diocesano Migrantes.

Domenica 24 settembre si celebra la 109ma Giornata del Migrante e del Rifugiato. Questa giornata arriva al termine di un’estate che ha visto quotidiani sbarchi di persone sulle coste italiane, e anche in questi giorni Lampedusa ha vissuto ore drammatiche, con numeri record di approdi e un’emergenza che ormai non si può più definire tale, perché questa situazione è ormai cronica. Possiamo dire che oggi la migrazione è una scelta obbligata che nulla ha a che fare con la libertà?
La migrazione è una scelta obbligata, sì. Le persone migrano – come è successo anche per tantissimi italiani – non solo per la guerra, ma anche per la fame, la mancanza di una vita dignitosa, perché non vengono riconosciuti i diritti più elementari. Per esempio, in molti paesi gli omosessuali vengono discriminati, imprigionati e torturati, e sono costretti ad andarsene.
Il titolo scelto dal Papa per il suo messaggio ci fa comprendere come la prima libertà che noi dobbiamo avere è quella di poter rimanere.
Tutti noi desideriamo rimanere a casa; magari andiamo a fare un bel viaggio, oppure un’entusiasmante esperienza di lavoro all’estero, ma poi torniamo a casa volentieri. Ricordiamoci che nessuno affronta un viaggio così terribile e rischioso se non fosse una necessità. Sono state spese troppe parole cercando di giustificare questo tipo di migrazione, ma non c’è differenza tra chi scappa dalla guerra e dalla fame e chi scappa alla ricerca di una vita dignitosa. Scappare vuol dire sempre essere costretti, obbligati a cambiare tutto, spostarsi da ciò che prima era certo a ciò che è diventato così incerto che l’incertezza del viaggio diventa l’unica possibilità.

Qualche settimana fa anche il Presidente della Repubblica Mattarella, nel suo intervento al Meeting di Rimini, ha chiesto all’Europa un impegno finalmente concreto e costante sul fronte della gestione degli arrivi dei profughi, ma è di questi giorni la notizia che la Francia ha deciso di bloccare l’accoglienza di migranti dall’Italia e chiudere i confini. Von der Leyen e Metsola però invocano l’attuazione del cosiddetto “Patto su migrazione e asilo”, che dovrebbe ridurre soprattutto i traffici di esseri umani. Cosa ne pensa? Che ruolo secondo lei dovrebbe svolgere l’Europa?
L’Europa manca di una costruzione culturale e sociale. Nel nostro Paese a livello pubblico si moltiplicano “chiacchiere” che si aggiungono alle tante chiacchiere dei Paesi europei su questo argomento. Si promettono con facilità meno sbarchi, più distribuzione; oggi ci troviamo con molti più sbarchi e molta meno distribuzione. Si sta effettivamente generando il problema immigrazione. Fino a poco tempo fa si gestiva una piccola emergenza, mentre oggi si sta generando il grande mostro dell’incapacità di accogliere, di una clandestinità sempre maggiore e di una consegna di queste persone, senza documenti, nelle mani della criminalità organizzata o della micro-criminalità.

Al di là della politica, la cosiddetta “rete ecclesiale” è protagonista non solo nell’accoglienza, ma anche nella promozione dei corridoi umanitari e delle vie interne per le persone in fuga. Cosa fa la Diocesi di Genova nello specifico per queste accoglienze?
I corridoi sono di fatto l’unica vera risposta, perché consentono di prendere letteralmente il volo dalle zone di confine. Questo garantisce sul risultato finale dell’immigrazione.
In questo momento i corridoi sono gestiti soprattutto dal volontariato. Le persone arrivano con i documenti già predisposti, quindi anche le spese di accoglienza sono ridotte a zero, ma sono sulle spalle di chi fa si adopera in queste accoglienze.
Sono numeri risicati, piccoli, perché l’accoglienza di una famiglia che deve imparare la lingua e trovare una posizione abitativa e lavorativa è estremamente gravosa e duratura, almeno finché non si raggiunge l’autonomia.

Un passo successivo sarebbe quello di andare oltre l’emergenza per iniziare a vedere i migranti, per dirla con Papa Francesco, come “compagni di viaggio speciali da amare e curare come fratelli e sorelle”. Come si può creare oggi una cultura che vada oltre la logica, anche legittima, della paura, ma punti invece sulla reale conoscenza del fenomeno migratorio?
Sembrano chiacchiere, un invito al buonismo. Ma anche qui a Genova, invece, abbiamo sperimentato in maniera concreta i frutti di queste parole, e il bene che nasce dai percorsi sociali, culturali ed abitativi per chi arriva nel nostro Paese. Dal 2014 oltre il 70% le persone uscivano dalle nostre accoglienze con prospettive concrete, con un lavoro, un tirocinio e una casa. Questo è il frutto positivo del percorso. Dopo il decreto Cutro la scuola di italiano, l’assistenza giuridica e le spese sanitarie e psicologiche che si rendono necessarie per le persone che hanno affrontato questi viaggi terribili vengono eliminati dai programmi governativi.
Sono stati cancellati anche i permessi umanitari, che costituivano un diritto che l’Italia riconosceva a queste persone; oggi le persone restano in Italia per 18 mesi con un permesso che non può essere convertito in permesso lavorativo, né può essere rinnovato.

Nel suo impegno per l’accoglienza ha potuto conoscere bene tanti migranti, anche molto giovani. Ha una storia in particolare che le è rimasta nel cuore e che lei ha seguito da vicino?
Raccontare una storia vorrebbe dire per me raccontare una briciola dei tanti volti, dei tanti ragazzi incontrati, con cui poi si diventa amici. C’è un episodio che ricordo ed è quello che mi ha fatto più male: un nostro ragazzo, di fronte a tante persone che erano venute ad ascoltare la sua testimonianza, ha raccontato la sua esperienza in un centro di detenzione, dove è stato torturato e minacciato con un fucile, e da dove è scappato di notte per non finire vittima di questo “pozzo della morte”.
Mi sono alzato e me ne sono andato, perché una cosa è sentire dei racconti di storie, un’altra è vedere un amico che davanti agli altri racconta la sua terribile esperienza. Oggi fortunatamente questo ragazzo è uno dei nostri operatori, un “gigante buono” che ha recuperato un po' di dignità e di serenità nella sua vita.

Fonte: Il Cittadino
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