In libreria - Gemma Capra Calabresi: "La crepa e la luce"
Uno straordinario percorso di vita e di fede
Diciamo “si può” per tante cose; forse, però, è più complesso dirlo, quando il verbo successivo è “perdonare”. La storia di Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso il 17 maggio del 1972 da chi lo fece conoscere come il responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli va proprio in questa direzione contraria: è una storia di perdono possibile, di un cammino lungo, di una riconciliazione oggi pienamente vissuta, descritta in maniera cronologicamente perfetta nel libro “La crepa e la luce”, edito da Mondadori, pubblicato qualche settimana fa e presentato dall’autrice a Santa Margherita Ligure, in una serata di riflessione e preghiera organizzata dalle parrocchie nel percorso quaresimale.
Gemma Capra aveva venticinque anni nel 1972: era sposata, aveva due figli piccoli, Mario e Paolo, e aspettava il suo terzo bambino, che si sarebbe chiamato Luigi. Il nome del papà, Luigi Calabresi, appunto, che quella mattina venne ucciso sotto la casa in cui abitavano, in Via Cherubini, dopo settimane di una feroce campagna stampa che lo accusava di essere il responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli.
Nel suo libro Gemma Capra ripercorre senza sconti gli attimi tragici in cui ha preso coscienza di quanto era accaduto; e descrive quella strana pace che l’ha conquistata quando, pochi minuti dopo aver appreso che il marito era morto per un colpo d’arma da fuoco, si è accasciata sul divano della casa dei genitori e ha sussurrato al suo parroco una frase, una sola, quella che, anche se allora la consapevolezza non poteva averla ancora raggiunta, avrebbe caratterizzato tutta la storia dei successivi cinquant’anni della sua esistenza: “Preghiamo per le famiglie di chi ha compiuto questo gesto”, aveva detto, anche se la citazione non è perfetta, “perché il loro dolore sarà peggiore del mio”. Gemma Capra non ha timore di rivelare nelle pagine del suo libro di essere partita dal punto più basso, da un desiderio insopprimibile di vendetta che, in qualche modo, la faceva stare bene. Uno scopo che piano piano si è dissolto, invece, nell’abbraccio di una fede che da abitudine e tradizione si è fatta incontro personale con il Signore, in un cammino dai tempi non prevedibili, e non preventivabili, che ha affidato totalmente all’amore di Dio.
La consapevolezza l’ha raggiunta dopo anni di “ritorni indietro”, di dolore rinnovato da articoli di giornale, o scritte sui muri, o semplici dichiarazioni, nel lungo e articolato percorso processuale: ed è la consapevolezza racchiusa nelle parole del Vangelo, nelle parole di Cristo sulla Croce “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” che la madre aveva scritto, al suo posto, sul manifesto funebre del marito: “Perchè è Lui, è il Signore, che concede il perdono”, spiega oggi Gemma Capra, “è a Lui che si rivolge Cristo stesso sulla croce; perché Lui stesso era un uomo, Lui stesso conosceva il nostro limite umano”. Questa coscienza conquistata, racconta, ha saputo regalarle una grande pace; ed è la sola possibilità di perdonare anche sé stessi, e di concedersi tutto il tempo necessario a perdonare, umanamente parlando, chi di quel dolore lacerante si è reso responsabile.
La storia di Gemma Capra è straordinaria non solo per questo percorso di vita e di fede che la rende per certi versi unica, ma anche e soprattutto perché il suo intento è proprio quello di testimoniare che questa strada è possibile. La dimensione del perdono e della pace si rinnovano e si rendono vere ogni giorno e ad ogni ora nell’incontro con chi, in questi cinquant’anni, non ha fatto mancare a lei e alla sua famiglia la solidarietà, l’affetto, la vicinanza umana e, perché no, spirituale.
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