La parola
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Il Figlio dell’uomo viene consegnato

XXV Domenica del Tempo Ordinario (domenica 23 settembre)

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

 Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».

 E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

N ella storia umana l’empietà continua ad avversare persino a perseguitare la santità.

Perché questa è adesione alla volontà divina, espressa nella sua legge, finalizzata alla conduzione amorosa dell’uomo alla vera realizzazione di sé.

Mentre l’empietà è opposizione a Dio, ripudio del suo progetto e quindi della sua legge. Nella Bibbia empietà è sinonimo di stoltezza e stoltezza è sinonimo di demoniaco; santità è sinonimo di sapienza e sapienza è sinonimo di giustizia.

E’ essa che, scatenando le passioni, genera disordini, malvagità, contese, liti e guerre: sia personali, che sociali ed internazionali.

La santità è la vera sapienza, che viene da Dio e si prefigge la pace. Cristo è icona del “giusto”, perseguitato, perché fedele a Dio, nella sua missione a servizio della santificazione, della fraternità e della pace. Chi vuol seguire Cristo, non può che assimilarsi.

L’Evangelista riferisce la seconda profezia di Gesù sulla passione e l’esordio delle sentenze sul nuovo spirito dei discepoli.  Da rilevare alcuni tratti comuni al testo precedente: la ripetizione, il silenzio, la volontarietà, la motivazione religiosa. Gesù prosegue il suo insegnamento itinerante, attraverso la Galilea, ai discepoli, ma riservatamente: non vuole che altri lo sappia. Raggiungerà Cafarnao: ultima visita ricordata dal Vangelo, a conclusione del suo ministero in Galilea, in quella stessa città che ha visto gli inizi della sua predicazione. In forma più concisa della volta precedente, ma egualmente chiara, predice – usando un’espressione di Isaia (53, 6.12) – come pressoché imminente la sua passione: “il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini”.  Annuncio ancora traumatizzante per i discepoli, ma che dovrebbe essere controbilanciato, anzi superato dall’annuncio che tuttavia “una volta ucciso, dopo tre giorni risusciterà”.  In realtà i discepoli, indubbiamente ancora succubi delle opinioni correnti sul Messia trionfante, si dimostrano immaturi per una fede completa, persino disinteressati a “comprendere” meglio le parole del Maestro. E neppure “gli chiedono spiegazioni”, perché “timorosi”: forse di rivelare la loro durezza interiore o forse di doversi sentire più coinvolti nella vicenda (infatti quando sarà il momento si eclisseranno quasi tutti). Si rivelano ancora refrattari ad una sequela libera da mentalità di superiorità terrena: anziché cercare di aiutarsi reciprocamente a comprendere il pensiero di Gesù, “discutono su chi tra loro sia il più grande”. Gesù non interviene, ma attende di arrivare a Cafarnao, “in casa” – quella, ospitale, di Simon Pietro o forse quella di Matteo-Levi, il gabelliere diventato apostolo – e, alla sua domanda, i discepoli, evidentemente sentendosi in colpa, non hanno coraggio di rispondere. Egli allora impartisce una lezione in termini scarni ed indiscutibili: “se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Il servizio agli altri – non la supremazia, il dominio – è il criterio di “grandezza” per i suoi seguaci, i quali debbono seguire il suo esempio: “venuto non per essere servito, ma per servire” (Mc 10,45).Per scolpire in loro il valore dell’umiltà, con atteggiamento icastico, avvicina a sé un fanciullo (in aramaico “servo” e  “bambino”  sono indicati dallo stesso vocabolo) – ce ne sono certamente sempre a gironzolare attorno a questo nuovo Rabbi – e, per attirare l’attenzione dei presenti, non solo  “lo pone in mezzo”, ma “lo abbraccia”: un gesto inconsueto nel suo comportamento; rilevato soltanto  da Marco, forse nostalgicamente ricordando di essere stato anch’egli, da ragazzo, insieme ai coetanei, a vedere il Messia.

“Chi – dice Gesù – accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me”. Il fanciullo è simbolo della delicatezza, della fragilità, della persona bisognosa di assistenza, di sostegno: insomma di considerazione e di amore. “Accoglierlo” – non semplicemente subirlo – in nome di Cristo, cioè per amore di Cristo, come fosse Cristo, di cui riproduce l'umiltà e la semplicità, equivale – dice – ad accogliere lui stesso. Parimenti – Gesù sviluppa ed amplia l’insegnamento – chi accoglie lui, in lui accoglie il Padre, Dio, il quale lo ha mandato, come suo “servo”, per una missione di servizio all’umanità. Come il fanciullo, bisognoso di amore, viene identificato in Gesù, così Gesù si identifica con Dio.  Affermazione di portata teologica inequivocabile.

Fonte: Il Cittadino
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