II lettura di domenica 13 novembre - XXXIII domenica del Tempo Ordinario
Anno C - La fine
Dalla seconda lettera di S Paolo apostolo ai Tessalonicési
2 Ts 3,7-2
Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi.
Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi.
Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.
L'attesa del giudizio divino non deve essere vissuta nel fatalismo ozioso, nella neghittosità acquiescente, ma nella la-boriosità diligente, responsabile, costruttiva.
E’ il monito con cui Paolo chiude lo scritto, riprendendo ed ampliando un pensiero già espresso nella prima lettera (1Tess 4, 10-12). E, come altre volte, avvalora le sue parole con la testimonianza della sua vita, con il suo esempio, proponendolo ad imitazione. Egli infatti avrebbe “il diritto” di chiedere il proprio mantenimento alla comunità, poiché gratuitamente svolge in essa e per essa opera di evangelizzazione; si diffonderà sull'argomento nella prima lettera ai Corinti (9,4 ss.). Tuttavia spesso preferisce lavorare, anche “di notte”, “con fatica e sforzo”, per non essere di peso ad alcuno; ma soprattutto per la consapevolezza della dignità del lavoro, che non soltanto dà diritto a mangiare il proprio pane, ma è collaborazione all’opera creatrice e conservatrice di Dio, oltre che servizio alla comunità, al prossimo.
Così Paolo alterna alla evangelizzazione la professione dell'artigiano, precisamente del tessitore di stuoie.
Il suo esempio allora acquista eloquenza trascinatrice, dimostrando pure il proprio disinteresse e procurandosi la possibilità di aiutare i poveri. Paolo valorizza l'ideale del lavoro, in tutti gli aspetti e richiama ancora un suo slogan: “quando eravamo presso di voi vi demmo questa re¬gola: chi non vuol lavorare neppure mangi”. Insegna che bisogna lavorare per vivere, ma non vivere per lavorare: il lavoro non è uno scopo, ma un mezzo, come il guadagno che ne deriva non può essere scopo della professione, ma mezzo, di cui servirsi – non da servire – anche per gli altri oltre che per sé.
L’ammonimento di Paolo è dovuto all'atteggiamento di molti Tessalonicesi, i quali presumendo imminente la fine del mondo, quindi la distruzione di tutto quanto, hanno deciso che è inutile lavorare. Ha già detto che la fine del mondo non è imminente. Comunque, anche se lo fosse – e quando lo sarà – la dignità del lavoro rimane intatta, giacché non ha come scopo ultimo la produttività, ma la valorizzazione dell'uomo e delle sue capacità sia intellettuali che fisiche.
A conferir forza al suo assunto, Paolo ricorda che è “nel Signore Gesù Cristo”, ossia deriva dalla volontà divina quanto è venuto insegnando.
Per le stesse ragioni ha “ordinato” ai cristiani di “evitare ogni fratello che vive oziosamente”, alle spalle degli altri, magari sfruttandoli. E poiché il lavoro, nel quale e dal quale l'uomo è chiamato a redimersi, è situazione della vita, sul suo onesto compimento egli verrà da Dio giudicato.
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