Domenica delle Palme (anno B), Marco 14,1-15, 47
Benedetto colui che viene nel nome del Signore
«Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: "Perché fate questo?", rispondete: "Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito"».
«Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: "Perché fate questo?", rispondete: "Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito"».
Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.
Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi...
Il racconto della passione e morte del Signore occupa uno spazio a prima vista sproporzionato rispetto al ministero pubblico di Gesù, in tutti i vangeli, a iniziare da quello di Marco. Il motivo di questo rilievo è abbastanza evidente, perché si trattava di rendere comprensibile, alla luce delle Scritture e della risurrezione di Gesù, l’evento di una morte umiliante com’era quella della croce, seguita ad una condanna del prefetto di Roma Ponzio Pilato, a cui era stato consegnato il Nazareno da parte delle autorità religiose del Sinedrio.
Già la morte, umanamente parlando, è sempre avvertita come uno scacco finale per l’uomo, soprattutto per l’uomo giusto, che ha operato il bene; ancora di più una morte come quella di Gesù, che poteva apparire una smentita delle pretese messianiche. Nei primi anni della nascita della comunità di Gerusalemme, e nei successivi primi decenni di diffusione dell’annuncio evangelico, il Crocifisso era una figura reale, impressa nella memoria dei primi discepoli, e nonostante l’evento sorprendente della risurrezione, comprendere perché Gesù sia dovuto passare per una tale morte, non era cosa semplice.
Ora una prima risorsa per leggere il senso di un avvenimento così oscuro era la parola delle Scritture, nelle quali era delineata la paradossale sorte del Messia, attraverso diversi modelli: di fatto, l’evangelista Marco, attingendo soprattutto ai Salmi, preghiera d’Israele e di Gesù, ha cesellato il suo racconto con molte allusioni a testi salmici, che esprimono le suppliche del giusto innocente perseguitato, il quale nell’ora della prova, resta fedele a Dio, nonostante Dio sembra essere lontano e assente. In effetti, nella narrazione di Marco, impressiona un duplice silenzio: c’è il silenzio di Gesù, che, come il servo sofferente di Isaia 53, non apre la bocca, muto agnello davanti ai suoi tosatori, non risponde alle accuse dei falsi testimoni nel Sinedrio, né controbatte alle domande incalzanti di Pilato, fino al mutismo della morte, dopo l’ultimo grido e l’ultima preghiera (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”: inizio del Salmo 21/22); e c’è il silenzio di Dio, che non dà nessun segno nella notte del Getsèmani, né nell’ora della crocifissione e della morte.
La passione di Cristo testimonia ai credenti di ogni tempo che il nostro Dio non è solo il Dio della parola e della vicinanza, è anche il Dio dei silenzi e del nascondimento, che ci chiede di fidarci di Lui, in modo assoluto, e l’ora della morte, per Gesù, come per noi, è l’ora di questo ultimo e totale affidamento, sperando contro ogni speranza, illuminati dalla luce del Crocifisso risorto, e tuttavia chiamati a trapassare l’apparenza.
Lo ha espresso in modo intenso il cardinale Martini in una sua riflessione sul “Pensiero alla morte” del Beato Paolo VI: «Dio ha voluto che passassimo per questo duro calle che è la morte ed entrassimo nell’oscurità che fa sempre un po’ paura. Mi sono rappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio.
Di fatto in ogni scelta impegnativa, noi abbiamo sempre delle “uscite di sicurezza”. La morte invece ci obbliga a fidarci totalmente di Dio». Così è stato per Gesù, che, pur essendo il Figlio di Dio, nella sua umanità viva e vibrante, ha dovuto affrontare il passaggio drammatico della croce e lo ha fatto con tutta la sua libertà e la sua disponibilità al Padre, dando significato nuovo e fecondo ad una condanna ingiusta e terribile, e riscattando così l’umano soffrire e morire di tutti noi.
Qui c’è l’altra grande risorsa che ha permesso ai primi discepoli e agli evangelisti di decifrare il senso dell’apparente ‘non-senso’ della croce, e sono le poche ed essenziali parole di Gesù, seminate nel racconto, nelle quali traspare la consegna di Cristo che non ha subito passivamente l’ora della prova, ma l’ha prevista, l’ha accolta, l’ha abbracciata, l’ha voluta, “offrendosi liberamente” (preghiera eucaristica II) al Padre, nella fedeltà al Regno da lui annunciato e manifestato.
Nelle parole pronunciate all’unzione di Betania (Mc 14,8), nelle parole durante la cena, con il gesto eucaristico che anticipa la morte di Gesù e ne rivela il senso (Mc 14,24: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”), fino all’ultima parola della consegna al Padre, “Abbà”, nella preghiera nell’orto (Mc 14,36: “Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”), scopriamo che Gesù non è morto senza una ragione, non è solo una delle tante vittime innocenti del potere: è il Figlio che è andato incontro alla croce, perché ha voluto venirci incontro, non si è tirato indietro di fronte all’estrema conseguenza dell’essere con noi e per noi, si è veramente consegnato a noi e a Dio, realizzando una nuova alleanza di vita indistruttibile.
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