La parola

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Il commento alla seconda lettura della Liturgia della Parola

La terza domenica d'Avvento è caratterizzata da una nota di letizia, che riecheggia, in modo particolare, nelle parole di Paolo ai Filippesi: 'Siate sempre lieti nel Signore. Il Signore è vicino!' (Fil 4,4). Apparentemente il motivo della gioia sembra assente nella pagina di Luca, che ci riporta tratti della predicazione di Giovanni: anzi, oltre ad indicazioni chiare che invitano a praticare la condivisione dei beni, la giustizia e a non abusare del proprio potere, Giovanni annuncia il volto di un Messia che sarà giudice e vaglierà le opere degli uomini.

Nel percorso dell'Avvento, siamo accompagnati dalla figura di Giovanni il battista, che immediatamente prepara il popolo d'Israele ad accogliere il Messia ormai presente. Il modo particolare con cui Luca introduce la persona e la predicazione di Giovanni vuole mettere in luce il suo essere profeta, uomo della parola: una parola che investe la vita del Battista, che in lui diviene realtà viva ed efficace. Infatti, secondo lo stile dei profeti dell'Antico Testamento, Luca afferma che 'la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto'.

C on questa domenica entriamo nel tempo d'Avvento, che si offre come tempo forte, in preparazione alla solennità del Natale del Signore: in fondo, in ogni periodo liturgico, la Chiesa mette in rilievo, volta per volte, le dimensioni essenziali e normali della vita cristiana. Quindi, ciò che la parola di Dio ci richiama a vivere, in queste settimane, non vale solo per i brevi giorni che ci separano dal Natale, ma indica una realtà permanente dell'esistenza.

L'anno liturgico si chiude con questa celebrazione, a sfondo pasquale, di Cristo, re dell'universo: una confessione luminosa e lieta della signoria di Cristo nel tempo e nella storia. Al di là delle immediate apparenze, secondo le quali, sono ben altri i signori e i grandi del mondo, c'è un unico Signore, che tiene nelle mani il cammino tortuoso e affaticato della storia, c'è un unico Re che non ci tratta da schiavi, né da sudditi, ma ci rende liberi, ci fa partecipare della sua regalità.

Ci avviciniamo alla conclusione dell'anno liturgico che, secondo un movimento circolare, si chiude, nello stesso modo in cui si era aperto: nella prima domenica d'Avvento avevamo ascoltato la parte finale del discorso escatologico di Gesù, redatto da Marco nel capitolo 13 del suo vangelo, con un forte invito alla vigilanza, e in questa domenica ascoltiamo il passo immediatamente precedente dello stesso discorso.

Il breve passo di Marco, offerto al nostro ascolto, presenta due scene differenti, entrambe ambientate nel tempio di Gerusalemme: Gesù è entrato nella città santa e si avvicinano i giorni della fine. Cresce il confronto con gli scribi, i sacerdoti e le autorità religiose del popolo d'Israele, in una serie di dispute, tanto che la prima parte del vangelo di questa domenica è, appunto, una messa in guardia, nei confronti degli scribi, gli esperti della Legge, che assumevano un ruolo di guida, per lo meno morale e religiosa.

Nella suggestiva solennità di Tutti i Santi, la liturgia ci propone la celebre pagina di Matteo, che racchiude l'inizio del discorso del monte, con la proclamazione delle beatitudini; ovviamente, siamo invitati a cogliere il rapporto profondo che sussiste tra il mistero della santità, destino ultimo dell'uomo, nel disegno di grazia del Padre, e le beatitudini che annunciano la novità del Regno, presente nella persona viva di Cristo.

Il racconto della guarigione del cieco di Gerico, Bartimèo, svolge un ruolo particolare nella narrazione di Marco, in quanto si colloca dopo una scena nella quale si è manifestata, ancora una volta la cecità dei discepoli. Mentre si avvicinano i giorni ultimi a Gerusalemme, mentre Gesù annuncia, in modo serrato, il mistero della sua passione, morte e risurrezione, che si compirà nella Città Santa, i discepoli mostrano una lontananza di cuore, un'incapacità ad entrare nella logica nuova del Regno.

N ello svolgimento narrativo del vangelo di Marco, dopo ogni annuncio della passione e della risurrezione da parte di Gesù, segue sempre una scena dove traspare l'incomprensione dei discepoli: nel nostro passo, è il caso di Giacomo e Giovanni che avanzano la richiesta di sedere nella gloria del Regno, alla destra e alla sinistra del Messia Signore. È difficile determinare con esattezza il senso di una tale richiesta, anche se evidentemente i due discepoli pensano ad una posizione di privilegio, di vicinanza, di partecipazione al dominio di Gesù re d'Israele.

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: 'Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre'». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».