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Eutanasia e difesa della vita, è urgente una legge nazionale

L'evoluzione giurisprudenziale rispetto al fine vita

Eutanasia e difesa della vita, è urgente una legge nazionale

In Italia la materia del fine vita è disciplinata sia dalla legge n. 219 del 22 dicembre 2017 che dal codice penale nel quale è evidente il giudizio di disvalore e di condanna che l'ordinamento esprime nei confronti dell'eutanasia.
In particolare, l'eutanasia, nella sua accezione attiva diretta, quando interviene il consenso della vittima, viene disciplinata come omicidio del consenziente ai sensi di quanto disposto dall’art. 579 c.p.
Inoltre il codice penale disciplina ex art. 580 la fattispecie criminosa dell'aiuto e istigazione al suicidio, che si realizza tutte le volte in cui la vittima abbia compiuto direttamente l'atto causativo della morte, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito. Tali articoli hanno sollevato questioni di costituzionalità con conseguenti importanti decisioni della Corte Costituzionale.

In data 24 ottobre 2018 è stata depositata l’ordinanza n. 207 nella vicenda che trae origine dal “Caso Cappato”, a seguito della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale su istigazione e aiuto al suicidio sollevata dalla Corte di Assise di Milano.
La Consulta non ha deliberato sulla costituzionalità della norma ma, al tempo stesso, ha impostato un’azione di rottura invitando il Legislatore ad intervenire.
La Corte ha rilevato che “l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti” e che, in alcuni casi, concorrere al suicidio di una persona sia una “situazione costituzionalmente meritevole di protezione”.

Il valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la volontà del malato che voglia porre fine alla propria vita, anche quando sia necessaria una “condotta attiva” che dovrà essere svolta dal Servizio Sanitario Nazionale.
Il Parlamento avrebbe dovuto legiferare, operando quello che la Consulta definisce un “bilanciamento” tra beni costituzionalmente rilevanti.
Decorso inutilmente il termine di un anno concesso al Parlamento per approvare una legge sul suicidio assistito, la Corte Costituzionale in data 25 novembre 2019 ha emanato la sentenza n. 242 stabilendo che l’aiuto al suicidio non è punibile in determinate condizioni quali:
1. l’irreversibilità della patologia;
2. la presenza di sofferenze intollerabili del paziente, che deve sopportare dolori fisici o psicologici che reputa insopportabili;
3. la dipendenza da macchinari o terapie di sostegno vitale;
4. la capacità di prendere decisioni in modo libero e consapevole. Il paziente deve essere in possesso della capacità di intendere e volere e deve prendere decisioni autonome e informate.

I giudici hanno dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona che versa nelle suddette condizioni.
La sentenza ha introdotto nel nostro ordinamento una deroga inedita al principio di indisponibilità della vita umana ed ha subordinato la non punibilità dell’aiuto al suicidio alla condizione che il soggetto sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e che il consenso si sia autonomamente e liberamente formato.

Cosa assai difficile quando il consenso venga espresso in un momento particolarmente drammatico, in cui la persona si percepisce di grave peso per i suoi cari, o addirittura sola e priva di ogni supporto.

La Corte stessa fa riferimento ad un possibile rischio di abuso nei confronti di soggetti ritenuti inguaribili e affetti da patologie incurabili.
La Corte si fonda sui diritti fondamentali di inviolabilità della libertà personale, dell’autodeterminazione individuale, della dignità della persona e, addirittura, al diritto alla vita.
Tuttavia pare volersi forzare il dettato dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione che, pur tutelando il diritto al rifiuto delle cure, non ammette in alcun modo il diritto al suicidio e garantisce cure gratuite anche ai malati ritenuti inguaribili e affetti da patologie irreversibili.

Quindi in questo caso l’atto medico volto alla “cura del malato” nella sua accezione più ampia, si configura come un atto con caratteristiche eutanasiche. Paradossalmente, il medico si verrebbe a trovare in una condizione in cui, contrariamente ai fini classici della sua professione, il percorso caratterizzato dal valutare, comprendere e proporre, attraverso un rapporto di relazione, tutto ciò che al momento la Medicina ha a disposizione per perseguire, custodire e mantenere il più a lungo possibile la salute del malato è stravolto totalmente.
Si troverebbe calato in un compito “nuovo” e inaspettato che è quello non solo di sospendere i trattamenti di sostegno vitale ancora in corso (ad esempio idratazione e/o alimentazione artificiale) ma soprattutto di intervenire medicalmente con farmaci a dosi letali e quindi in tal modo di essere artefice del processo del morire, che perderebbe la sua naturalità ed unicità.

Da tale pronuncia derivano specifici obblighi per le strutture sanitarie pubbliche quali l’accertamento delle condizioni e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Nel 2024, a distanza di sei anni dalla concessione al Parlamento di un termine per elaborare una legge nazionale sul fine vita, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sul suicidio medicalmente assistito con la sentenza n. 135 depositata il 18 luglio 2024.

La Corte ha confermato e chiarito i requisiti stabiliti dalla sentenza del 2019, affrontando le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice per le indagini preliminari di Firenze, che miravano a estendere l’area della non punibilità del suicidio assistito.
Ha ribadito che il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale svolge un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019 e che questo principio non si applica ai pazienti che non dipendono da trattamenti di sostegno vitale, poiché questi non possono semplicemente lasciarsi morire rifiutando le cure.

La Corte procede ad un chiarimento di che cosa si debba intendere per "trattamenti di sostegno vitale" affermando che “il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività.
Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente.

Con questa ultima sentenza i “paletti” indicati dalla Corte vengono sempre più superati, facendo avanzare una cultura che potrebbe presto arrivare ad investire gli stessi malati depressi, come accade in Olanda e in altri paesi in cui l’eutanasia e il suicidio assistito sono stati legalizzati.
In particolare, si stanno strumentalmente allargando i confini dei “trattamenti di sostegno vitale”. Tradendo lo spirito e la lettera della sentenza 242/2019, si diffonde la tendenza a identificarli con qualsiasi attività medica o persino assistenziale, come i massaggi o l’aiuto a mangiare o a lavarsi.
Ad esempio, in Veneto vengono qualificati come tali gli ordinari farmaci antitumorali, assunti da milioni di malati oncologici. In Friuli-Venezia Giulia, per portare la morte sarebbe addirittura sufficiente che una persona debole riceva assistenza.

Lo sfondamento dei parametri della citata sentenza costituzionale n. 242/2019 è palese, giacchè la Consulta, per derogare al Codice penale, ha precisato di riferirsi a “trattamenti di sostegno vitale quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali”. Cioè, si sono assunte situazioni inimmaginabili all’epoca dell’entrata in vigore del Codice penale quali quelle degli esempi dei sostegni vitali riportati, in quanto si è considerato il “cosiddetto uso compassionevole di medicinali” relativi a casi “di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche”.
Pertanto, se un ospedale pubblico collaborasse al suicidio di un malato che, invece, viene ancora curato con ordinari (e frequentissimi) percorsi terapeutici o che ha solo bisogno di assistenza per vivere, i canoni della Consulta risulterebbero chiaramente elusi.
È quindi molto urgente, anche alla luce delle iniziative regionali, che la materia venga disciplinata da una legge nazionale che tuteli nel miglior modo possibile la vita, favorisca l’accompagnamento e la cura nella malattia, e che vengano potenziate le cure palliative.
*Presidente Unione Giuristi
Cattolici di Genova

(Foto ANSA/SIR)

Fonte: Il Cittadino
Eutanasia e difesa della vita, è urgente una legge nazionale
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