La parola
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IV domenica di Pasqua - Anno B, Gv 10,11-18

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

La quarta domenica di Pasqua ci propone l'immagine giovannea di Gesù "buon pastore", a commento della precedente parabola con cui si apre il capitolo 10 del quarto vangelo (cfr. Gv 10,1-10). L'auto-rivelazione racchiusa nelle parole di Cristo rimanda alla sua identità divina, in quanto, nella storia d'Israele, è Dio stesso che si presenta come pastore del singolo fedele e dell'intero popolo, un pastore fedele e appassionato, nonostante i tradimenti e i peccati del suo gregge. Così Gesù è realmente il pastore buono e bello (nell'originale in greco abbiamo l'aggettivo "kalós" che racchiude in sé l'idea di bellezza e di bontà), il vero pastore che ne realizza compiutamente la missione. Dove si manifesta il volto dell'autentico pastore? Dove si vede la differenza radicale con chi è un semplice mercenario, che svolge un lavoro per ricevere un salario? Proprio nella cura che il pastore ha per le sue pecore, fino a dare la vita, pur di difendere il gregge dal lupo: dal momento che il pastore vive un legame con le sue pecore, e dal momento che esse gli appartengono e per lui sono preziose, egli può giungere fino al dono totale di sé. Ora, nella realtà, non è così scontato che un pastore sia disponibile a morire per le sue pecore, certamente farà di tutto per difenderle e salvarle, ma è anche possibile che davanti ad una minaccia che non è in grado di fronteggiare, se pur con il cuore ferito e addolorato, egli si metta in salvo, nell'impossibilità di garantire l'incolumità del gregge. Questa dedizione sconfinata e incondizionata del pastore non si ritrova così facilmente nell'esperienza umana e allude a qualcosa di grande, che supera i limiti dell'uomo: il pastore che ha totalmente a cuore il bene delle sue pecore, e che per esse dona la vita, in senso pieno è Gesù, che nel mistero pasquale, vivrà l'amore ai suoi "fino alla fine", disposto davvero a dare la vita, a deporla, come deporrà le vesti all'inizio dell'ultima cena, per lavare i piedi dei suoi discepoli. Così la parola di Giovanni ci fa guardare Cristo che nell'ora della croce non fugge, ma silenziosamente dona la vita per noi, per "riunire i figli di Dio dispersi" (Gv 11,54): un pastore che, paradossalmente, si fa "agnello condotto al macello, pecora muta di fronte ai suoi tosatori" (Is 53,7) e che nell'apparente passività dell'essere preso, consegnato, maltrattato, e crocifisso, vive il gesto della sua libertà filiale, esercitando "il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo", in radicale obbedienza al comandamento ricevuto dal Padre. Certamente, l'icona giovannea del buon pastore contiene in sé non solo una rivelazione luminosa dell'essere e dell'operare di Cristo, ma anche una chiara indicazione per tutti coloro che sono chiamati ad essere pastori, nel nome e nel segno dell'unico buon Pastore, a servizio del suo gregge, del popolo dei credenti: anzi Giovanni prospetta un orizzonte ampio, che abbraccia anche le pecore "che non provengono da questo recinto", le pecore che vivono oltre i confini della comunità ecclesiale, chiamate ad ascoltare la voce di Gesù, per diventare in lui "un solo gregge, un solo pastore". In certo modo, l'immagine del pastore, evocata anche nei vangeli di Matteo e di Luca, nella parabola del pastore che cerca la pecorella smarrita (cfr. Mt 18,12-14; Lc 15,3-7), vale per ogni discepolo del Signore, chiamato a testimoniare e a rendere presente, sempre di nuovo, la tenerezza e la cura dell'unico Pastore, sollecito del bene e della salvezza di ogni pecora, di ogni uomo a lui affidato dal Padre, e svela il vero potere che è in grado di cambiare la storia degli uomini: "Nell'Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un'immagine del loro potere, un'immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero pastore. Non è il potere che redime, ma l'amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall'impazienza degli uomini" (Benedetto XVI, omelia d'inaugurazione del suo ministero, 24 aprile 2005). Contemplare Cristo buon pastore è imparare questa logica nuova dell'amore e della pazienza, che sono il segreto di Dio, e della fecondità della sua opera per noi.

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