II Lettura di domenica 9 agosto 2020 - Vorrei essere io stesso anàtema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli.
XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Rm 9,1-5
Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.
La “gratuità”della salvezza, offerta all’uomo, senza suo merito, neppure quello derivante dall’osservanza della Legge, ma solo in rispondenza della sua fede e la “fedeltà” di Dio al suo progetto salvifico sono i temi che Paolo ha già esposto nella lettera. Ora affronta una obiezione: perché allora Israele, il quale è pur stato scelto per primo, ora è “rigettato” da Dio ?
L’Apostolo risponderà che ciò è imputabile alla giustizia divina, ma al peccato, alla indisponibilità di Israele, il cui ripudio da parte di Dio, tuttavia, non è totale né definitivo: ci sarà ancora offerta di misericordia.
Paolo affronta l’argomento, non per motivi o risentimenti personali, ma in ragione della fede, della “verità in Cristo” e con “coscienza”, la cui sincerità è “testimoniata dallo “Spirito Santo”.
Argomento penoso, che ferisce il cuore – simultaneamente ebreo e cristiano – di Paolo con “un grande dolore e una sofferenza continua”, incessante, ormai da tempo.
Pena che viene sfogata con espressioni appassionate e gravi: per amore e a favore della salvezza dei suoi “fratelli” di fede ebraica e di etnia –“consanguinei nella carne” – si dichiara disposto ad essere maledetto – “anatema” – cioè bandito dalla partecipazione ai beni del suo popolo, condannato a morte, fisica e morale, e finanche – paradossalmente – ad essere “separato da Cristo”. Alla mente di Paolo forse torna la preghiera di Mosè per il suo popolo, dopo il misfatto del vitello d’oro: “Ora perdona ad essi il loro peccato; altrimenti cancellami dal tuo libro che hai scritto” (Es 32,32).
Gli Israeliti – ricorda l’Apostolo – hanno avuto precedenza rispetto ad altri popoli, poiché Dio ha affidato loro la rivelazione, ma ciò non costituisce privilegio che dispensi dalla fede in Cristo, il quale ha portato a compimento definitivo e perfezionato la rivelazione divina.
Gli Israeliti hanno avuto prima di altri popoli la divina “adozione a figli”; sono stati gratificati dalla speciale e tangibile presenza di Dio – “la gloria” – e dei suoi interventi a sancire e a rinnovare più volte “le alleanze” con loro; ha manifestato con chiarezza la sua volontà e la strada per realizzarla – “la legislazione” – tramite Mosè; ha istituito il vero culto; ha continuato a rinnovare “le promesse” di protezione, in cambio della fedeltà; ha designato come guide “i patriarchi”, con i quali ha mantenuto rapporto paterno.
Una storia unica ed incomparabile, tra i popoli di tutta la terra e di tutte le epoche. Ma soprattutto, dalla loro stirpe – “secondo la carne” – infine, la nascita di Cristo, il quale “è sopra ogni cosa”, perché è Dio e deve essere “benedetto” , cioè adorato, amato, obbedito da tutti e perennemente, “nei secoli”.
Tutto ciò costituisce per Israele titolo di responsabilità maggiore nel ripudio di Cristo. A ragione dunque Paolo, ebreo che ha accolto e ama Cristo, si arrovella e si tormenta.
La lealtà dei suoi sentimenti, verso Israele e verso Cristo, è giurata dal solenne “Amen”.
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