La parola
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3a Domenica d’Avvento anno C, Luca (3, 10-18)

E noi che cosa dobbiamo fare?

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

Il Vangelo di questa terza domenica di Avvento continua e conclude la presentazione di Giovanni il Battista e della sua predicazione, iniziata nella domenica precedente. In realtà, la lettura liturgica salta alcuni versetti (per la precisione, i vv. 7-9) e riprende dal v. 10, con le domande a Giovanni (vv. 10-14), che sono esclusive di Luca e mancano negli altri sinottici. Tre diverse categorie di persone gli chiedono: «Che cosa dobbiamo fare?» (vv. 10.12.14). Nel primo caso sono, genericamente, le folle (v. 10), che Luca ha già presentato al v. 7, mentre negli altri due si parla di pubblicani e di soldati (rispettivamente, vv. 12 e 14), vale a dire di persone generalmente considerate, a causa del loro mestiere, in modo negativo.
La triplice e comune domanda sembra uno sviluppo dell’esortazione rivolta da Giovanni al v. 8: «Fate dunque frutti degni della conversione». È interessante osservare che anche qui, come al v. 3, Luca usa la parola “metánoia”, che indica prima di tutto un cambiamento del modo di pensare, dello stile di vita. Tuttavia, se questo cambiamento è autentico, esso deve tradursi in frutti concreti. Occorre, però, che essi maturino rapidamente, perché «la scure è posta alla radice degli alberi: perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (v. 9).
Queste espressioni (come anche quella conclusiva al v. 17) sono comuni a Luca e a Matteo (Mt 3,7-10) ed evidenziano un tono “forte” (il temine tecnico è “apocalittico”) della predicazione del Battista, che dipende dalla consapevolezza della prossimità dell’intervento risolutivo di Dio, della sua venuta nella storia, attesa e invocata, alla quale Giovanni prepara i propri discepoli («Preparate la via del Signore»: v. 4).
La risposta, differente a seconda degli interlocutori, è legata tuttavia da un duplice denominatore comune: la solidarietà e la giustizia nei rapporti sociali. Giovanni invita le folle a condividere vestiti e cibo (v. 11), i pubblicani (che sono esattori delle tasse) a non esigere niente più del dovuto (v. 13) e i soldati a rinunciare all’uso della violenza per estorcere beni e denaro, accontentandosi invece dei loro stipendi (v. 14).
La conversione, così fortemente esigita, non consiste dunque in speciali penitenze, ma in un cambiamento radicale del modo di pensare e, per conseguenza, in un vero e proprio “capovolgimento” delle abitudini ingiuste e non solidali. È interessante osservare che la predicazione di Giovanni elimina le discriminazioni nei mestieri: non è il genere di lavoro svolto a rendere ingiusto l’uomo, ma l’assenza di Dio dalla sua vita.
A questo punto, l’autore introduce una nuova, ultima domanda, che sale dal cuore del “popolo” in attesa (non si parla più genericamente di “folle”, come nei versetti precedenti), circa l’identità messianica del Battista («si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo»: v. 15). La risposta consiste in un doppio annuncio: della venuta del “più forte” (espressione che Luca riprende in 11,22 e che evidentemente si riferisce a Gesù, nel contesto della polemica sulla provenienza della sua autorità sugli spiriti impuri) e del battesimo in Spirito e fuoco (v. 16).
Il primo elemento, comune ai tre Vangeli sinottici (Mc 1,7; Mt 3,11), contiene anche il famoso (e difficile) discorso sui lacci dei sandali: «ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali» (v. 16). Probabilmente, l’espressione allude a un istituto del diritto matrimoniale giudaico, il “levirato” (Dt 25,5-10): si tratta di una norma a tutela della conservazione del nome e del patrimonio di un uomo sposato che muore, lasciando la moglie senza figli. In questo caso, il parente più prossimo (di solito, un fratello del defunto) è tenuto a prendere in moglie la cognata, per dare una discendenza al fratello. Se, però, rifiuta, la vedova gli slaccia il sandalo e glielo toglie (come gesto di disprezzo, ma anche di accettazione della rinuncia) e l’onere di provvedere passa al parente successivo.
In realtà, non sappiamo se questa norma abbia mai trovato attuazione (e l’immagine evocata nei Vangeli sembra “trascrivere” una prassi diversa da quella riferita dal libro del Deuteronomio): è però affascinante pensare che l’enigmatica espressione di Giovanni non sia solamente un segno di umiltà e di sottomissione, ma abbia a che vedere con l’identità del “più forte”, che oltre a essere il Messia è anche lo Sposo autentico del suo “popolo”, cui nessuno (nemmeno Giovanni stesso) può slegare il laccio del sandalo (che cioè nessuno può privare del diritto di prendere in moglie la sposa, il “popolo in attesa”).
Questa lettura è resa possibile dal senso dell’aggettivo tradotto di solito con “degno” (“hikanós”): a ben vedere, esso significa in realtà “capace”, “adeguato”, e sembra alludere a una differente qualità dei soggetti, più che a una “degnità” morale. In altre parole, la frase del Battista sarebbe una rivelazione sull’identità messianica, sponsale (e divina) del “più forte”, e sulla diversa provenienza e forza del suo agire (il battesimo in Spirito e fuoco).

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