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Domenica delle Palme, Passione secondo Matteo

Benedetto colui che viene nel nome del Signore

È sempre impressionante l'accostamento, in questa domenica, di due testi apparentemente così differenti: il racconto dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme, e la narrazione degli eventi drammatici della sua passione.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore

È sempre impressionante l'accostamento, in questa domenica, di due testi apparentemente così differenti: il racconto dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme, e la narrazione degli eventi drammatici della sua passione. In realtà c'è un filo profondo che lega i due passi, così come sono delineati dall'evangelista Matteo: da una parte traspare la signoria di Gesù, che manda i due discepoli davanti a sé, a preparare con cura il necessario per il suo ingresso nella città santa, e che nelle ore oscure della sofferenza mostra di vivere in modo libero e consapevole la condanna e la croce, con la coscienza, più volte richiamata, di compiere le Scritture, di realizzare il paradossale disegno di Dio; d'altra parte diventa chiaro il volto originale di questo messia, umile e obbediente, che, in modo ben differente da immagini di gloria e di potere, entra in Gerusalemme, cavalcando un asino, e conclude la sua vita terrena, abbandonato dai suoi discepoli, condannato come bestemmiatore dalla somma autorità religiosa, sottoposto al supplizio terribile e umiliante della croce. Matteo, nello svolgimento della sua narrazione, tiene presente la domanda centrale, che chiude il racconto dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme, espressa dalla città in agitazione: 'Chi è costui?'. La risposta della folla, 'Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea', esprime una percezione iniziale e parziale del mistero di Gesù, e proprio nei gesti e nelle parole che accompagnano il racconto della passione, possiamo riconoscere il volto inatteso e sorprendente dell'autentico messia: Gesù è il servo del Signore, che versa il suo sangue per la salvezza dei molti (cfr. Mt 26,28 che riprende Is 53,12), è il giusto (Mt 27,19), l'innocente condannato senza aver fatto nulla di male, soprattutto è il Figlio di Dio (Mt 27,19), che non compie la propria volontà, ma quella del Padre, infine, in maniera scandalosa, è il vero re dei Giudei, il re d'Israele, che non salva se stesso dalla croce, che afferma la sua forza nell'umiltà, nel silenzio di fronte alle accuse e alle derisioni, nel dono estremo del suo corpo. Tutto il racconto di Matteo mette il rilievo lo scarto, la distanza tra l'incomprensione e la cecità dei capi religiosi e delle folle, e questa rivelazione della più profonda identità del Signore, ed è significativo che i primi a non comprendere, ad essere travolti dagli eventi siano gli stessi discepoli, incapaci di vegliare con il loro maestro, vili e paurosi nel momento dell'arresto, deboli fino al rinnegamento di Pietro, addirittura conniventi con il male e la menzogna, nella figura tragica di Giuda. Ancora di più i sommi sacerdoti e le folle non sanno vedere il mistero racchiuso in Gesù, lo deridono, lo sfidano, lo invitano a salvare se stesso, a scendere dalla croce, a mostrare un potere che sappia risolvere ogni contraddizione e sappia trionfare con il fascino del prodigio, eliminando il rischio dell'umana libertà; saranno invece in centurione e quelli che fanno la guardia con lui, a riconoscere nel crocifisso il Figlio di Dio. Matteo, con linguaggio proprio delle teofanie e delle visioni degli ultimi tempi (il terremoto, le rocce che si spezzano, i santi e i giusti che risorgono), annuncia nella morte di Cristo una dirompente novità che si manifesterà nella risurrezione del Signore. Ogni anno, all'inizio della Settimana Santa, ci è riproposto il vangelo della passione e della croce, perché anche noi abbiamo bisogno di essere toccati e feriti da questo Gesù, così differente rispetto alle nostre misure e alle nostre immagini, anche noi abbiamo bisogno d'entrare nella logica paradossale della croce, di una fecondità che nasce dall'obbedienza al disegno di un Altro, dal dono gratuito della nostra vita, per l'opera del Padre. In fondo sta qui il percorso paradossale che la liturgia c'invita a vivere, dalla scena di gioia e d'apparente gloria del Signore, che entra a Gerusalemme, accolto dal canto dell'Osanna, all'epilogo drammatico del grido 'Crocifiggilo!', alla vera gloria del Figlio che si dona, nella solitudine, attraversata dalla preghiera, dal grido al Padre: 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'. La gloria del Risorto, in realtà, è già lì, sulla croce, in una morte violenta e ingiusta trasformata in gesto di donazione e in preghiera, e contro la nostra facile tentazione di correre subito alla luce dell'alba di Pasqua, il vangelo ci chiede di sostare, lungamente, nella contemplazione di Gesù agonizzante, incoronato di spine e oggetto di scherno, crocifisso, come uno tra i tanti: sarà questo crocifisso a risorgere, sarà una vita donata così, al Padre e agli uomini, a vincere la morte, sarà questa la via aperta ad ogni discepolo che voglia partecipare della pienezza della risurrezione.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore
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