Migranti in Albania. Andata... e ritorno
Non siano i Paesi UE a decidere singolarmente al di là degli obblighi internazionali
La vicenda dei trasferimenti dei primi migranti in Albania da parte del governo italiano ha sollevato tensioni politiche ed istituzionali in Italia, ma ha radici più lontane in Europa e, più recentemente, in una sentenza della Corte europea di giustizia.
Le radici sono quelle di una civiltà del diritto che progressivamente nei secoli questo nostro continente ha cercato di costruire con fatica e non poche contraddizioni. Un cantiere già attivo con il diritto romano, sviluppatosi nel contesto di un’Europa segnata dal messaggio cristiano e che ha trovato nella modernità europea, da Erasmo alla rivoluzione francese, una sua configurazione nel rispetto della persona, da proteggere da ogni forma di discriminazione.
Lo ha confermato ancora recentemente, a inizio di questo secolo, la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, oggi documento giuridicamente vincolante, in cui “l’Unione riconosce i diritti e le libertà” dei cittadini.
I 27 Paesi UE hanno liberamente convenuto di vivere in questa civiltà del diritto, regolata da Trattati negoziati tra le parti e da cui discendono normative condivise, il cui rispetto è affidato alla sorveglianza delle Istituzioni europee, in particolare alla Commissione, “garante dei Trattati”, e alla Corte europea di giustizia, i cui pronunciamenti prevalgono, in caso di conflitti di interpretazione, su quelli nazionali.
È il caso di quanto avvenuto, con una sentenza della Corte europea di giustizia, lo scorso 4 ottobre su richiesta di un tribunale della Repubblica Ceca, che ha affermato il diritto dell’Unione di non consentire attualmente agli Stati UE di designare come Paese sicuro per il respingimento “solo una parte del territorio del Paese terzo interessato”.
Ed è appellandosi a questa sentenza che il Tribunale di Roma, il 18 ottobre scorso, ha negato la convalida dei trattenimenti nelle strutture ed aree albanesi cui aveva fatto ricorso il governo italiano, motivandola con la “impossibilità di riconoscere come ‘Paesi sicuri’ gli Stati di provenienza delle persone trattenute, con la conseguenza dell’inapplicabilità della procedura di frontiera”, trattandosi nel caso in questione del Bangladesh e dell’Egitto.
Lunedì scorso il governo italiano ha reagito adottando un provvedimento per consentire comunque l’operazione contestata dal Tribunale di Roma, cercando di alzare il valore giuridicamente vincolante del decreto, adesso a firma del governo, e modificando leggermente la lista dei Paesi sicuri, da 22 a 19, ma mantenendovi il Bangladesh e l’Egitto, una Paese che l’Italia ha imparato a conoscere con l’assassinio di Giulio Regeni. Su questa base è atteso adesso un nuovo pronunciamento dei giudici italiani, accusati dal ministro della Giustizia di non aver capito la sentenza della Corte europea, redatta in francese (sic!).
Limitiamoci qui a formulare qualche riflessione sulle risposte attese dall’Unione Europea, in merito all’individuazione dei “Paesi sicuri” per i trasferimenti migranti, senza dimenticare che altri vincoli giuridici esistono per i respingimenti.
La Corte europea si è limitata ad applicare le norme comunitarie previste dalla Direttiva vincolante del 2013, di cui è prevista una modifica nel 2026, salvo notare che la sua sentenza precede l’increscioso episodio italiano e ricordare che il diritto comunitario prevale su quello della “Nazione”, come molti nell’UE tendono a dimenticare o vorrebbero modificare.
La Commissione europea che con la sua riconfermata presidente, Ursula von der Leyen, aveva a più riprese detto il suo apprezzamento per l’iniziativa italiana, adesso più cautamente si dice interessata a monitorare il “caso Albania” e a chiedere il rispetto del diritto. Il tutto contando anche sugli orientamenti che prenderà il Parlamento europeo, dove si profila sul tema una inedita maggioranza di destra e destra estrema.
Sullo sfondo si profila nell’UE un possibile conflitto istituzionale dove le “Nazioni”, o alcune di esse, si candidano ad essere le “piccole patrie” del diritto e, se elettoralmente utile, anche del suo rovescio, facendo in Italia anche carta straccia dell’art. 11 della Costituzione e dell’art. 117 per il quale: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
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