Non si può fare a meno dell'Unione Europea
E' un quadro fondamentale di cui l'Italia ha bisogno
Qualcuno, a caldo, aveva parlato di Terza Repubblica. Queste settimane ci mostrano come la realtà sia assaipiù prosaica, in termini politici e in termini istituzionali.
Per la ridefinizione del quadro politico, ovvero del profilo dei partiti, operazione complicata, ma necessaria, il traguardo sono le elezioni per il Parlamento europeo, nella prossima primavera. Si vedrà in quella prospettiva come i nostri partiti, vecchi e nuovi, si allineeranno appunto in un quadro europeo, dal quale, al di là degli –ismi vecchi e soprattutto nuovi, come populismo, sovranismo, europeismo, che attizzano le propagande, non si può fare a meno.
Il riferimento europeo ci porta alle questioni istituzionali. Perché, come dimostra l’attuale affanno inglese a disegnare credibili modalità di uscita, l’Unione è un quadro di cui non si può fare a meno. Anche se si moltiplicano le occasioni di contenzioso sollevate dagli Stati Uniti di Trump, cosa che aggiunge incertezza e conflittualità.
Detto che il riferimento è imprescindibile, tuttavia è anche vero che, proprio nello spirito dell’Unione, tutto (o quasi) è negoziabile. E uno dei mandati più chiari usciti dalle elezioni del 4 marzo è proprio negoziare al meglio la posizione italiana nell’Unione europea e nell’Euro.
Non è un caso che i due dossier più caldi, quelli che sono più emblematici per Lega e Cinquestelle, ovvero l’immigrazione e le politiche di spesa sociale, necessariamente presuppongono il quadro europeo. E negoziati duri, proprio anche di fronte al fatto che tutta l’Unione è sotto pressione nel quadro globale. Proprio per questo gli obiettivi possono essere centrati a patto che il soggetto, ovvero l’Italia, sia solido.
Siamo così al tema delle relazioni interistituzionali, su cui sono emerse, non a caso proprio sui due temi delle immigrazioni e delle politiche di sostegno allo sviluppo, frizioni significative.
Sull’emigrazione è intervenuto direttamente (e in modo inusuale) addirittura il Quirinale, a riattivare un circuito decisionale interno al governo che sembrava avere bypassato il presidente del Consiglio. Sul cosiddetto decreto dignità (era stato Monti a titolare i decreti economico-fiscali perché fossero meglio compresi o digeriti) è invece scoppiata una polemica tra il ministro competente e gli uffici tecnici a proposito di una controversa tabella sugli (scarsi o addirittura negativi) risultati in termini occupazionali del decreto stesso. Si aggiungano le frizioni legate alle elezioni dei compenti “togati” del Csm e più in generale all’azione della magistratura su alcuni casi “caldi”, dalle ruberie della Lega di Bossi e Belisario alla trattativa Stato-mafia.
Ordinaria conflittualità, certo. Ma tutti episodi che dicono della
urgenza di saldare bene i meccanismi decisionali, nel rispetto delle regole, delle competenze, dei “pesi e contrappesi” istituzionali che determinano la qualità di una democrazia.
Che non può fare a meno di una classe dirigente (parola che forse non piace ma che è necessaria) all’altezza della situazione.
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