La tragedia della Shoah al cinema
Il primo titolo risale al 1940: Bufera mortale
Siamo abituati a pensare che la Shoah, la "catastrofe" con cui si indica lo sterminio del popolo ebraico nei campi di concentramento nazisti, soltanto negli ultimi decenni venga rappresentato al cinema. In realtà già nel 1940 il regista americano Carol Reed realizza Night Train to Munich, sebbene sia sui campi di sterminio per i dissidenti; mentre il primo film sugli ebrei nei lager nazisti è di Frank Borzage (Francesco Borzaga, di origine italiana) che negli Stati Uniti nel 1940 dirige Bufera mortale da un romanzo del 1937 scritto da Phyllis Bottome.
Se questi due film sono conosciuti a pochi, è però famosissimo, Il grande dittatore di Charlie Chaplin, sempre del 1940, sebbene non sia proprio sulla Shoah. Da allora sono state numerose le opere su questo tema: tra queste Notte e nebbia (1955) di Alain Resnais, ma il film a Cannes viene prontamente ritirato (il regista stesso dirà: "Non sapevo che alla Croisette ci fosse una rappresentanza nazista"). "Notte e nebbia" era stato commissionato dal Comité d'Histoire de la Seconde Guerre Mondiale con il commento di un sopravvissuto a Mauthausen e corredato da materiale di repertorio in bianco e nero, mentre il girato all'interno dei campi, nel tempo presente, è a colori e sottolineato da un'atmosfera di pietà legata al ricordo.
Da lì inizia un dibattito durato davvero a lungo in cui ci si chiedeva: cosa è lecito far vedere di questa immane tragedia? E' possibile rappresentarla senza banalizzarla? E' lecito farne un film che, per quanto magnifico e di spessore, rende l'evento della shoah una spettacolarizzazione?
Infatti, proprio in Francia, dalle pagine dei "Cahiers du cinéma" (rivista cult di critica cinematografica) arriva una critica ferocissima a Kapò (1961) di Gillo Pontecorvo, il quale nel 1961 realizza un film bello e interessante sui campi di concentramento. L'accusa da parte dei Cahiers era di ridurre la tragedia dei campi a spettacolarizzazione, e dunque avevano tacciato come immorale il film di Pontecorvo. L'articolo si intitolava addirittura "Dell'abiezione"!
Da qui inizia una vera e propria iconoclastia da parte della critica francese durata diversi anni. All'apice di questa posizione vi è Shoah (1985) di Claude Lanzmann, il quale filma un documentario di 9 ore senza far vedere mai immagini di repertorio, ma basandosi esclusivamente sulle testimonianze dei sopravvissuti dei campi, poiché la posizione teorica è quella secondo la quale non si può far vedere nulla.
In altri paesi invece l'argomento è stato rappresentato in diversi modi, scegliendo anche un taglio particolare, cioè basato su diverse esperienze personali e sulla memoria di chi ha vissuto sulla propria pelle le leggi razziali: nel 1959 si ha così Il diario di Anna Frank di George Stevens che guadagna anche l'Oscar.
In Italia sulla scia del romanzo come memoria ha un grande successo Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica, tratto dal libro omonimo di Giorgio Bassani. La tregua (1977) di Francesco Rosi è basato sul libro autobiografico di Primo Levi sul viaggio di ritorno dai campi di concentramento.
In Francia Louis Malle si distacca dal "dogma" dei Cahiers per inserirsi sull'importanza della testimonianza con Arrivederci ragazzi (1980) un bellissimo film tratto dalla sua esperienza personale: da ragazzo, durante l'occupazione nazista, Malle aveva vissuto in un collegio tenuto da sacerdoti che nascondevano dei ragazzi ebrei in mezzo agli studenti e al personale. Da allora in Francia escono anche altri film basati su biografie, basti pensare al recente Un sacchetto di Biglie (2017) di Christian Duguayi dal romanzo autobiografico di Josef Joffo.
Nel 1990 suscita grande scalpore Schindler's List - La lista di Schindler (1993) diretto da Steven Spielberg; Ispirato al romanzo "La lista di Schindler" di Thomas Keneally e basato sulla vera storia di Oskar Schindler. Dunque anche Spielberg si pone sulla linea che la "fiction" può raccontare ciò che sembra irraccontabile. Ricordiamo ancora di Polanski "Il pianista": tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Wladyslaw Szpilman e in cui non mancano anche riferimenti all'esperienza stessa del regista, il quale da bambino sfuggì ai rastrellamenti nel ghetto di Varsavia. Il film nel 2002 vince la Palma d'Oro al Festival di Cannes.
Ovviamente vi sono stati altri modi, nel mondo del cinema, di raccontare la Shoah, ma concludiamo con La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, il quale merita ben 3 Premi Oscar e in cui non mostra visivamente la cruda realtà dei campi di concentramento, se non alla fine quando si vedono i cadaveri accatastati.
Lo sguardo di Benigni si sposta invece sulla ricerca della sopravvivenza data dall'amore di un padre per la propria famiglia e pur senza negare mai l'atrocità di ciò che sono stati i campi di sterminio, regala agli spettatori una luce, una speranza di vittoria del bene sul male.
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