La collina del vento
"La collina del vento" è il romanzo vincitore del premio Campiello 2012. Nella suggestiva cornice della Fenice di Venezia, ad essere premiata è ancora una volta la scuderia Mondadori. Nulla di nuovo sotto il sole, grande e bello nelle storie dei premi italiani, anche se la storia, non solo quella narrata, ma anche quella personale e familiare dell'autore, Carmine Abate, rappresenta un punto di svolta nelle tradizioni letterarie, e non solo quelle. Lo scrittore è nato a Carfizzi, Crotone, in un'isola albanese della Calabria, 58 anni fa, si è laureato in lettere all'università di Bari ed ha poi raggiunto il padre che era emigrato in Germania in cerca di lavoro. Da questo melting pot etnico e culturale nascono quasi tutti i romanzi di Abate, mentre l'ultimo, vincitore del prestigioso Campiello, è piuttosto la rivendicazione della casa perduta, la collina del Rossarco che i membri della famiglia Arcuri difendono contro la violenza e la bramosia degli uomini. La religione della casa assume qui, dopo la grande stagione verghiana dei Malavoglia, in cui il più piccolo dei Toscano ricostruisce il nido familiare violato, di nuovo una dimensione epico-religiosa.
Dopo Verga, Pascoli e Pavese avevano tentato una per loro impossibile riappropriazione del giardino (etimologicamente assai vicino al significato originario di paradiso) e degli affetti familiari. Ma il romanzo di Abate, come tutta la sua opera, non nasconde un messaggio ad excludendum, vale a dire una egoistica delimitazione dello spazio vitale, bensì un segno assai forte, che l'autore rafforza nelle interviste e negli altri racconti: il dover andar via dalla madre terra perché non si trova lavoro è un'ingiustizia.
Le tracce del vissuto familiare di doppia estraneità potenziale, quella di appartenere alla comunità arbereshe in Italia e a quella italiana in Germania, sono evidenti. Nel romanzo vincitore del Campiello, la famiglia Arcuri, come quella dei Toscano nel capolavoro di Verga, difende la propria ident ità contro quella che di volta in volta si configura come una faccia della modernità: la guerra, la dittatura, la malavita organizzata che vuole trasformare terre arcaiche e dense di risonanze profonde in villaggi turistici, nel luogo del divertimento a tutti i costi, mordi e fuggi, tanto poi il cemento resta e il turista se ne va. Per questo un premio importante ad un messaggio del genere è già di per sé un segno che va oltre le strategie vincenti - quasi sempre - dei grandi editori e s'inscrive in un contesto diverso, quello della reazione delle forze vitali ai danni operati da un malinteso progresso. Verga condannava, nonostante tutto, i suoi eroi pescatori all'estinzione e alla sconfitta, perché contro il progresso secondo lui non c'era partita.
Il messaggio di Abate invece ci porta su una dimensione antagonista ma nel contempo ecumenica, nel senso che tutti gli uomini di buona volontà possono partecipare, con i tesori della propria cultura ed etnia, alla costruzione di una casa comune.
Il suo richiamo alla solidarietà, prima ancora che a un'Europa schiava della finanza e dei conti a prescindere dall'uomo, è un avviso ai naviganti nel grande mare della letteratura: le storie parlano sempre e comunque di noi e non sono semplici affabulazioni per nostalgici o per pochi viandanti pensosi; esse possono parlare profeticamente di un domani più giusto e contribuire, nei cuori degli uomini che ancora hanno tempo per leggere racconti, a costruirlo con l'impegno personale.
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