Gv 1, 35-42
Videro dove dimorava e rimasero con lui
II domenica del Tempo Ordinario
Giovanni Battista sta ancora nella località di Betania – non quella vicino a Gerusalemme, ma quella oltre il Giordano – “il giorno dopo” che Gesù è andato a farsi battezzare da lui. Vedendolo nuovamente passare, il Precursore lo addita a due suoi discepoli, con la stessa espressione del giorno precedente: “ecco l’Agnello di Dio”. Una designazione che, evidentemente, aveva significato messianico comunemente riconosciuto, se il Battista la usa senza spiegazioni: evoca infatti l’agnello pasquale, il cui sangue – per divina disposizione – scampò i primogeniti ebrei dallo sterminio, in Egitto, la notte dell' esodo (Es 12,3-28); richiama pure l'agnello, che, mattina e sera, viene immolato nel tempio; ma soprattutto è nel libro di Isaia che il “Servo di Jahvé” è paragonato ad un agnello (Is 53,7); nella prima lettera di Pietro l’agnello è simbolo di innocenza e di mansuetudine (1a Pt 1,29; cfr. anche 1a Gv. 3,5-6).
Additando il Messia, Giovanni compie il suo mandato. I suoi due discepoli “sentendolo parlare così” comprendono la portata dell’indicazione ed immediatamente “seguono” Gesù. “Seguire Gesù”, nel linguaggio dell’evangelista, non ha soltanto valore descrittivo e fisico, ma significa l’adesione di fede, il discepolato. D’altra parte il “camminare”, il “passare” di Gesù, come il suo “vedere” i due che lo seguono, sono espressioni che richiamano la prima pagina biblica, quella della creazione, in cui lo sguardo di Dio, il suo “vedere” è creativo e i suoi “passi” per i progenitori indicano una presenza straordinaria.
I due discepoli del Battista stanno per essere “creati” discepoli di Gesù, la cui presenza è rivelatrice della presenza di Dio. E già il Precursore lo ha designato come proprietà divina: appartiene a Dio, è di Dio, “Agnello di Dio”.
La domanda di Gesù è fondamentale: “che cercate?”.
Un interrogativo, che tende a stabilire la chiarezza e la sincerità di una ricerca, di una sequela.
R. Bultman fa notare che quest’interrogativo è la prima parola di Gesù riferita dal Vangelo di Giovanni: una domanda emblematica, che Gesù pone a chiunque intenda seguirlo, in modo che non sussistano equivoci o illusioni.
I due, chiamandolo “Rabbì” (l’evangelista stesso spiega, ai lettori non ebrei, che il termine significa “Maestro”), esternano il desiderio di potergli parlare con agio, chiedendogli: “dove abiti?”. Gesù, comprendendo pienamente il senso della richiesta, apparentemente banale, non fornisce alcuna indicazione, ma li invita alla diretta esperienza: “venite e vedrete”.
Una esperienza, talmente decisiva, da far sì che ricordino per sempre addirittura l’ora: “circa le quattro del pomeriggio”.
E il narratore sottolinea che i due “si fermano presso di lui”: una permanenza, una comunanza familiare, che dura “tutto il giorno” cioè sino alla completezza, ma non all’esaustività, se il giorno Gesù li vedrà ritornare.
Di uno dei due l’evangelista riferisce il nome: “Andrea”. Dell’altro no: in tutto il quarto Vangelo c’è la presenza di un discepolo, che mai viene nominato: si suppone sia lo stesso scrivente, Giovanni, il quale annota, appunto, persino l’ora di quest’evento che cambia la sua esistenza.
Andrea comunica entusiasticamente al fratello, Simone, di aver trovato il Messia e lo conduce da lui. L’incontro è trasformante per Simone: Gesù gli annuncia il cambiamento (o l’aggiunta) di nome, Cefa, che in ebraico significa “Roccia” e quindi tradotto in greco è “Pietro”.
E’ noto che il nome, nell’antico Oriente in genere e nel mondo biblico in particolare, è espressivo delle caratteristiche e dei compiti della persona, per cui cambiare nome significa cambiare prerogative e missione, senza contare che imporre un nome equivale ad avere autorità su colui che lo riceve. Per Simone Pietro dunque l’incontro con Gesù è l’inizio di una esistenza totalmente nuova, cui non oppone alcuna obiezione o condizione.
Anche su Pietro c'è “lo sguardo” creativo di Gesù: ormai sarà un altro uomo, con nuove responsabilità.
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