II Domenica di Pasqua (anno B), Giovanni 20, 19-31
Otto giorni dopo venne Gesù
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Il vortice spaventoso di una violenza che si proclama islamica non lascia certo nell’indifferenza chi ai bordi della cronaca segue il tragico percorso. Le domande si susseguono e sopra tutte campeggia il perché non si riesca a contenere una furia disumana e devastante. Perché quel silenzio che papa Francesco ha denunciato più volte parlando, in particolare ma non solo, dei cristiani perseguitati? La speranza messa a durissima prova ha bisogno, per non soccombere, di un sostegno anche piccolo, anche lontano dai teatri del terrorismo. Basterebbe il racconto di un fatto vicino. Potrebbe essere, questo, un tentativo inutile vista la sproporzione tra lo tsunami di malvagità che attraversa vaste aree del mondo e la piccola onda di umanità che attraversa un territorio limitato. Eppure occorre tentare. E così tra i titoli dei giornali, delle radio, delle tv e di internet si cerca un titolo diverso da quelli che irrompono ogni giorno con il loro carico di sofferenza. Non per ridurre un peso, non per fuggire dalla realtà ma per aprire uno spiraglio nella crosta del male, per dire che un’altra realtà esiste, per dire che la speranza non è morta. Non è un’impresa facile perché il terreno mediatico nazionale e internazionale, più che comprensibilmente, è occupato in massima parte da titoli che raccontano di devastazioni visibili e invisibili. L’impresa sarà difficile, se non impossibile, se dalla ricerca di frammenti di speranza si escluderanno i media del territorio che raccontano, senza tacere la morte e il male, la vita buona e onesta della gente. Chi è ai bordi della cronaca si esercita in un confronto tra le due realtà mediatiche, non per stabilire graduatorie ma per trarre, dalla diversità del comunicare, quei motivi che sono indispensabili per sostanziare un realismo che non sia senza speranza. L’esperienza di una maestra che, a nome della comunità cristiana, insegna italiano a un gruppo di donne musulmane in un Paese del nord Italia non si bilancia con la sconvolgente strage di studenti in un’università africana. L’esperienza di un detenuto che nella lettera a un settimanale locale riconosce il significato della pena e, nello stesso tempo, dice la sua passione per una vita nuova non cancella neppure in parte l’atrocità di un sequestro di innocenti. L’esperienza delle reti di famiglie solidali che in diverse città si aprono all’accoglienza dei diversi e degli umili non annulla un egoismo di gruppo ma pone una domanda forte sul senso della paura e della chiusura. Dicono, le tre piccole esperienze narrate da media locali, che la speranza non è morta. Dicono, le tre esperienze rese notizie locali, che molti non si rassegnano al male, sfidano culturalmente il pessimismo e costruiscono luoghi di pace, di riconciliazione, di giustizia. Le due mediasfere non sono da contrapporre, ma è importante che dalla loro diversità nasca un dibattito leale nella coscienza di chi scrive e di chi legge, di chi racconta e di chi ascolta, di chi riprende con la telecamera e di chi guarda le immagini. Si è tutti attorno al campo dove vengono seminati terrore, morte e distruzione. Si è tutti attorno al campo dove vengono seminati rispetto, accoglienza e speranza. Due mediasfere di fronte alle quali la coscienza si lascia interrogare. Di fronte alle quali la coscienza non si rassegna. Di fronte alle quali la speranza si accende e diventa una luce che rompe il buio della cronaca. Paolo Bustaffa Oltre le notizie di cronaca... si cercano titoli di speranza! Il vangelo di questa seconda domenica di Pasqua ci riporta al cenacolo, al luogo del primo incontro dei discepoli con Gesù risuscitato , e nel racconto di Giovanni, possiamo percepire l’eco di un’esperienza inattesa e sorprendente, che ha fatto passare i primi testimoni dalla paura alla gioia. Questa è la “pasqua” dei discepoli, il passaggio dall’oscurità delle ore della passione, alla luce di una scoperta, inizio di una nuova storia: nonostante il loro timore, nonostante le porte chiuse, Gesù viene, sta in mezzo, parla e si fa riconoscere. Questo nuovo inizio nella vita dei discepoli è reso possibile dall’iniziativa gratuita di Gesù che rivolge ai suoi amici il saluto della pace, senza richiamare il loro abbandono nella notte del tradimento e il rinnegamento di Pietro, attraversa ogni resistenza, come quella di Tommaso, e in un gesto di una nuova creazione, alita su di loro lo Spirito. Per Giovanni, è la sera di Pasqua il momento in cui nasce la Chiesa, la comunità fondata sulla testimonianza degli apostoli, il segno vivo e permanente del Risorto, e la nostra fede è radicata nell’esperienza unica e singolare dei primi discepoli, che hanno visto il Signore e hanno continuato a sperimentarne la Sua presenza, nella potenza dello Spirito. Così noi che apparteniamo al tempo della Chiesa, debitrice della testimonianza apostolica, noi che non abbiamo avuto la grazia della visione diretta del Risorto, come Tommaso, possiamo, tuttavia, vivere nell’esistenza ecclesiale, una reale contemporaneità di Cristo alla nostra vita e anzi possiamo partecipare di una beatitudine quasi maggiore di quella di Tommaso. Il testo originale greco, infatti, si può anche rendere in forma interrogativa, traducendo i due participi con un presente, per indicare una condizione che d’ora in poi segna il cammino dei credenti: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto? Beati quelli che non vedono e credono”. Certo Gesù ha accolto la sfida di Tommaso, ma nella narrazione di Giovanni, c’è un filo nascosto d’ironia, perché la richiesta dell’apostolo assente, ripresa puntualmente nelle parole di Cristo, ha la forma di una pretesa esagerata, che va oltre la visione, e sembra chiedere un controllo empirico, tattile, come se l’unica forma di conoscenza possibile fosse quella legata ai sensi. Illusione molto frequente anche oggi, pensiamo alla riduzione istintiva della conoscenza amorosa e affettiva, come se, per conoscere una persona, fosse necessario e sufficiente un contatto fisico! In realtà, Tommaso stesso riconosce il Risorto e giunge alla più alta confessione cristologica dei vangeli – “Mio Signore e mio Dio!” – perché è stato travolto da una presenza ben oltre ciò che immaginava, e per sé, nel testo, l’evangelista non dice che è stato necessario per il discepolo incredulo toccare i segni dei chiodi e la ferita del costato. Ha vissuto un incontro, plasmato dalla parola di Gesù, che mostrava di ben conoscere le richieste esagerate del discepolo, e si è trovato di fronte all’invito decisivo a credere, ad entrare in una relazione di fiducia, che è la strada della vera conoscenza. Ebbene, tutto questo vale anche per noi, oggi, anzi noi, pur non vedendo il Signore, sottratto alla presa dei nostri sensi corporei, siamo beati perché tutta l’esperienza dei primi testimoni si è fissata nella ricchezza della scrittura evangelica, che ha una profondità inesauribile ed è sempre nuova ad ogni generazione: Giovanni ci assicura che c’è un’eccedenza tra ciò che Gesù ha fatto e ciò che è da lui narrato, e tuttavia i segni che l’evangelista ha scelto e ha scritto, ci sono consegnati perché noi, credendo, possiamo ora avere la vita nel nome di Cristo. Inoltre il Signore vivente si mostra all’opera nell’esistenza trasfigurata dei suoi testimoni, dei suoi santi, di ieri e di oggi, e ci tocca, ci comunica la sua vita, alita in noi il suo Spirito nella grazia dei segni sacramentali e nel dono oggettivo della comunità da lui creata, animata e sostenuta. Possiamo così riconoscere, con stupore, che per la fede, siamo beati, come e quasi più di Tommaso, perché noi possiamo nutrirci della testimonianza divenuta racconto multiforme (quattro vangeli!), carico di una maggiore intelligenza delle parole e dei gesti di Gesù, e abbiamo davanti agli occhi lo spettacolo di una storia di santità, che non smette mai di germogliare nel grembo della Chiesa.
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