La lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato
VI Domenica del Tempo Ordinario (11 febbraio 2018)
Ci sono situazioni umane, in cui la persona sofferente deve isolarsi, per non essere di pericolo agli altri. Non per questo gli altri sono autorizzati ad emarginare il sofferente, gelosi soltanto alla propria “sicurezza”. Specialmente quando la causa ha soltanto una incidenza esteriore. D’altra parte una tale situazione può aiutare il ricupero di valori interiori, ben più importanti. La preoccupazione per il bene altrui deve spingersi sino ad evitare non solo ciò che è effettivamente negativo, ma anche ciò che, pur essendo lecito, può costituire motivo di malessere spirituale per gli altri. Gesù interviene in una di tali situazioni per risolvere l’emarginazione sociale, far ricuperare totalmente i valori interiori e tuttavia, pur non essendo necessario, si adegua alla normativa vigente per non destare ammirazione, anzi, in tal senso, vorrebbe che neppure si sapesse del suo intervento.
Il lebbroso – il primo della narrazione evangelica – che si avvicina a Gesù, contravviene alla legge mosaica, la quale ne interdice il contatto con le persone sane. Un atto temerario, di coraggio. Ma si tratta di coraggio motivato da straordinaria fiducia nel potere taumaturgico di Gesù, verso il quale il malato si pone in atteggiamento di profondo rispetto e di totale affidamento: “lo supplica in ginocchio”. Anche se egli, quasi certamente, non percepisce la vera identità divina di Cristo, esprime, tuttavia, la certezza che egli fruisca, almeno, di facoltà che soltanto la Divinità può concedere. Usa infatti una frase che nell’antichità è riferita alla potenza divina: “se vuoi, puoi guarirmi”.
Infatti è comune convinzione che la lebbra sia la “primogenita della morte” (Gb 18,13); secondo Giuseppe Flavio i lebbrosi “non sono in nulla diversi da un cadavere” (Ant. Giud. III, 11, 3); i rabbini considerano la guarigione dalla lebbra talmente improbabile da essere paragonata alla risurrezione da morte; per ciò quando Naaman era andato dal re di Israele per chiedere la guarigione dalla lebbra, questi aveva protestato vivacemente: “sono forse Dio, per dare la morte e la vita?” (2° Re 5,7). Gesù esaudisce l’implorazione, “mosso da compassione”; il testo greco occidentale dice invece che Gesù è “adirato”: reazione spontanea per la constatazione che l’opera originaria di Dio è stata deturpata a causa del peccato e della conseguente azione satanica, che Gesù, appunto, è venuto a debellare. In definitiva le due formulazioni si integrano: Gesù agisce per amore verso l’uomo, opponendosi vigorosamente alle forze scatenate dal male. Mentre altri grandi personaggi avevano agito a nome e con la forza loro trasmessa da Jahvé e mediante qualche elemento sensibile (ed esempio Naaman aveva dovuto lavarsi sette volte nelle acque del Giordano), Gesù opera a nome proprio, personalmente e soltanto con la volontà, espressa semplicemente in un imperativo: “Lo voglio, guarisci!”.
E con il gesto allude, significativamente, all’intervento di Dio: stende il braccio e tocca il malato, come Jahvé nell’Antico Testamento aveva guidato ed assistito il suo popolo “con braccio steso e mano forte” (Dt 26,8 ed altri passi). Effettivamente la lebbra “scompare subito”. L’evangelista aggiunge che il malato “guarisce”, per testificare che l’intervento di Gesù non è solo superficiale, relativo all’aspetto esteriore, ma totale, definitivo. “La potenza di Dio vive in modo quasi sacramentale nella corporeità di Gesù e prende sul serio anche la corporeità degli uomini” (E. Schweizer). Gesù impone “severamente” al miracolato di non propalare il fatto, sempre nella preoccupazione di scongiurare ogni sconveniente entusiasmo, per quanto è strepitoso nella sua opera, a scapito della comprensione della reale portata spirituale. D’altra parte – nel rispetto della legislazione mosaica – Gesù raccomanda all’uomo di far constatare la guarigione dai sacerdoti, affinché possa essere riammesso nella comunità.
Dovrà fare le offerte sacrificali prescritte: due agnelli senza difetti, un’agnella di un anno senza difetti, tre decimi di fior di farina intrisa d’olio ed una misura d’olio; se è povero: un agnello, un decimo di fior di farina intrisa d’olio, una misura d’olio e due tortore o due colombi (Lv 14,1 ss). La constatazione, però, deve pure servire – dice Gesù – “a testimonianza per loro”, non soltanto perché reintegrino l’uomo nella convivenza, ma anche perché riconoscano il modo miracoloso della guarigione e, all’occorrenza, possano testimoniarla. Il miracolato invece divulga l’avvenimento e la fama taumaturgica di Gesù si diffonde al punto da costringerlo ad eclissarsi, sempre allo scopo di non avallare una interpretazione distorta della sua messianicità. Ciò nonostante c’è sempre chi riesce a rintracciarlo anche “nei luoghi deserti”, in cui si apparta. Gesù si lascia accostare, ma vuole evitare ogni esaltazione terrena, che andrebbe a scapito della comprensione della sua identità.
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