II lettura di domenica 7 febbraio - Guai a me se non annuncio il Vangelo
V Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io.
Dopo aver messo ben in chiaro che, chi si dedica al ministero apostolico ha diritto al sostentamento da parte della comunità che serve – richiamandosi alla volontà di Cristo, il quale “ha disposto che coloro che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo” (9,14) – Paolo ha dichiarato tuttavia di rinunciare a tale diritto. Ora ne dà la motivazione.
L’annuncio del Vangelo “è un dovere”, cui l’Apostolo è stato chiamato da Dio, non può quindi costituire motivo di “vanto” come può essere una scelta personale.
È un dovere, talmente cogente, da ipotizzare il castigo divino per chi vi si sottraesse: “guai a me se non predicassi il Vangelo!”. Paolo, come i profeti dell’A.T. è stato “ghermito” da Dio (cfr. Gr 1, 6 ss; Am 3,8; 1aCr 15,8 ss; Gl 1,12 ss).
Quindi insiste e rimarca: il servizio apostolico è assimilabile a quello dello schiavo, il quale deve compiere quanto gli è stato ordinato, senza esigere ricompensa. Si sente echeggiare la parola di Gesù agli Apostoli: “quando avete compiuto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili [non indispensabili]; abbiamo fatto tutto quello che dovevamo” (Lc 17,10).
La “ricompensa” di Paolo consiste nella gratuità onorevole del servizio, nella rinuncia al diritto di essere sostentato dalla comunità: il suo “vanto” sta in tale libertà, che vuole conservare, per poter essere considerato “servo di tutti”, disinteressatamente, scongiurando anche il sospetto che la sua predicazione possa essere considerata un espediente per campare. Mantiene assoluta libertà, per poter essere – paradossalmente – “servo di tutti”, nel desiderio di convertire “il maggior numero” possibile di fratelli.
Per questo è deciso a condividere ogni situazione, a donarsi “tutto a tutti”, nell’impellente impegno di “salvare ad ogni costo qualcuno”, fosse anche una sola persona: quindi pure a costo di rinunciare ai propri diritti personali.
Paolo vive unicamente per il ministero evangelico e ogni dimensione della sua esistenza devolve a questo: partecipare con i fratelli al Vangelo, cioè a Cristo, quindi alla sua incondizionata dedizione per il bene degli altri.
Non solo libertà, allora, nella rinuncia al sostentamento della comunità, ma anche assimilazione a Cristo, il quale si è donato totalmente e disinteressatamente, soltanto per amore.
Così vuole essere Paolo: senza equivoci per gli altri, senza tentazioni per se stesso.
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