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II lettura di domenica 4 luglio - Mi vanterò delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo

XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Paolo, denigrato da certi “arciapostoli” e preoccupato, quindi, per una possibile defezione di credenti di Corinto dal cristianesimo, ha enumerato particolareggiatamente - è il più ampio brano autobiografico di tutto il suo epistolario – le credenziali e i titoli autenticanti la missione apostolica cui è stato chiamato da Dio, arrivando a rivelare di esser stato gratificato di estasi. A questo punto, timoroso di aver peccato di orgoglio, testimonia la sua personale fragilità: “perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni mi è stata messa una spina nella carne”. L’Apostolo è consapevole che certi tormenti, di cui soffre, sono permessi da Dio, al pari delle esperienze mistiche.
La “spina” (il termine greco ha pure significato di “palo di tortura” o di “croce”) è un tormento personale, probabilmente fisico (“nella carne”): una malattia cronica con attacchi ricorrenti (“schiaffeggia” ), forse la febbre maltese o una forma di oftalmia (cfr. anche Gl 4,14 ss) o anche di sofferenze fisiche, che talora accompagnano le estasi mistiche; non può tuttavia escludersi – come opinano alcuni esegeti – che l’Apostolo si riferisca alle pene causate dalle persecuzioni di cui è fatto ripetutamente oggetto. Comunque egli ritiene che il tormento – seppur permesso da Dio, come a Giobbe – è causato da Satana. L’uomo, cioè, anche quando è chiamato da Dio ad un servizio straordinario, continua a sperimentare la propria debolezza umana, soggetta agli attacchi di Satana e del male, quindi alla tentazione. Per quanto elevato possa essere il ruolo affidato da Dio ad un uomo, questi conserva la naturale fragilità. Da tale condizione, Paolo, “per ben tre volte” (ossia: molte volte, ripetutamente) ha chiesto a Dio di essere liberato, ma la preghiera non è stata esaudita, giacché quella “spina” non ostacola il suo ministero apostolico. Dio ha risposto: “ti basta la mia grazia”. È la grazia – vitalità divina – che garantisce la missione dell’Apostolo, non la sua perfetta complessione fisica o morale né l’intraprendenza personale.
Anzi la fragilità dell’Apostolo, in definitiva, è garanzia d’autenticità divina della sua missione: “la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza”, nella inadeguatezza del tramite umano.
Paolo aveva già scritto ai Corinti: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1a Cr 1,27). Ed allora non gli resta che “vantarsi ben volentieri” di tutto ciò che è debolezza e contribuisce a mettere in risalto l’azione divina, “la potenza di Cristo”. Tutto ciò che è penoso – infermità, oltraggi, indigenza, persecuzioni, angosce - sofferto “per Cristo”, cioè per suo amore e in partecipazione alle sue stesse sofferenze (“porto impresse nel mio corpo le stigmate di Cristo” - Gl 6,17), diventa motivo, non di sopportazione, ma addirittura di “compiacimento”.
Paolo ha compreso che la sua debolezza ha un valore misterioso di grandezza: “quando sono debole è allora che sono forte”.

Fonte: Il Cittadino
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