È il più piccolo di tutti i semi ma diventa il più grande di tutti
XI Domenica del Tempo Ordinario (domenica 17 giugno)
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Dio compie grandi opere con piccoli mezzi, umanamente inadeguati. Anche nell’opera della salvezza – il suo “Regno” – egli è partito da umili circostanze per giungere alla definitiva consistenza di dimensioni universali.
L’esistenza terrena degli uomini, tutti chiamati a far parte del Regno di Dio, è in funzione della loro vita eterna, allorché il Regno sarà perfettamente realizzato. Alla vita eterna, quindi, va rapportato l’impegno etico.
Il Regno di Dio tuttavia non si attua per l’impegno dell’uomo, ma per la intrinseca vitalità soprannaturale ed ha latitudine universale: offre accoglienza a tutto il genere umano.
“Regno di Dio” è espressione ricorrente nella Bibbia, soprattutto sulla bocca di Gesù, per indicare la signoria di Dio su tutte le creature, non tanto a livello naturale, conseguente alla creazione, quanto e soprattutto a livello soprannaturale. Numerose sono le parole, con le quali Gesù focalizza, di volta in volta, i vari aspetti e i vari momenti di attuazione del “Regno di Dio” che egli stesso è venuto ad instaurare, in attuazione delle profezie veterotestamentarie. Va dunque ricordato che ogni singola parabola non esaurisce la ricchezza del concetto di “Regno di Dio” e che – criterio generale di interpretazione delle parabole – non necessariamente ogni elemento del racconto ha un significato, ma soltanto il complesso della narrazione illustra una verità. La prima parabola di questo testo liturgico paragona il “Regno di Dio” al seme, il quale, una volta gettato nella terra, “germoglia e cresce”, all’insaputa e senza l’opera dell’agricoltore, quindi per propria forza intrinseca. Lo sviluppo del seme è perfetto, completo: “prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco nella spiga”. Ogni elemento a suo tempo, armonicamente e progressivamente. Quando poi la maturazione è avvenuta allora non si può più aspettare: “subito si mette mano alla falce” per la mietitura.
Il “Regno di Dio” dunque si sviluppa e giunge a maturazione per forza propria, non per azione umana ed in maniera misteriosa: “come egli stesso non sa”. La mietitura – la quale, nel linguaggio biblico, rappresenta il giudizio finale di Dio – avviene certamente, immancabilmente, ma non casualmente: al momento stabilito. La parabola “dovrebbe chiamarsi veramente dell’agricoltore paziente [...] Come per l’agricoltore, dopo lunga attesa, giunge sicuramente il raccolto, così con altrettanta certezza, Dio, allorché la sua ora è venuta, allorché è compiuta la misura escatologica, fa giungere il giudizio finale e il regno di Dio” (J. Jeremias). Il “Regno di Dio”, dunque, si sviluppa per forza intrinseca, soprannaturale, conosce varie fasi ed arriva a perfezione nel momento escatologico. Con la seconda parabola – in cui è sottintesa ancora l’inarrestabile e misteriosa crescita – viene descritta l’ampiezza e l’universale accoglienza del “Regno di Dio”, nonostante il suo inizio, apparentemente privo di consistenza. Dal granellino di senapa, “il più piccolo di tutti i semi”, germoglia e cresce una pianta, la quale, nell’ambiente in cui Gesù parla, è “più grande di tutti gli ortaggi”. Anzi diventa un arbusto (talora alto anche più di due metri, sulla riva del lago di Genezareth) con “rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra”, ed anche cibarsi dei suoi frutti in granellini. La parabola echeggia la profezia di Ezechiele (17,23): “diventerà cedro magnifico; sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà” (cfr. prima lettura). Il “Regno di Dio”, impiantato umilmente, nascostamente, è destinato ad offrire ospitalità, riparo, alimento universale. Poi l’Evangelista avverte che le parabole narrate da Gesù per illustrare il “Regno di Dio” sono “molte”, più di quelle riferite nel Vangelo.
E non esaurienti, ma adatte all’uditorio, “secondo quello che possono intendere” i suoi ascoltatori. Sottolinea pure che Gesù non insegna “senza parabole”. Per alcuni motivi, sembra di poter supporre: perché il linguaggio immaginifico, riferito ad ambiente ed usi familiari consueti, è particolarmente adatto a tradurre e ad imprimere nella memoria concetti astratti; secondariamente, trattandosi di parlare di realtà soprannaturale, la parabola aiuta a comprendere quanto l’intelligenza umana può percepire e contemporaneamente lascia nel mistero ciò che non può essere compreso; inoltre l’aspetto enigmatico della parabola incuriosisce gli ascoltatori, sollecitandoli a chiedere spiegazioni e quindi ad approfondire il messaggio; infine la verità, velata, che la parabola presenta può essere percepita da chi è ben disposto e non prevenuto, evitando, invece, di provocare reazioni inadeguate e inopportune negli avversari, i quali cercano pretesti contro Gesù (in questo senso si potrebbe dire che la parabola è linguaggio per gli iniziati). Allora si comprende perché Marco aggiunge che Gesù “in privato, ai suoi discepoli, spiega ogni cosa”.
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